20/02/2022
Prima Guerra Mondiale. Uomini, Soldati, Eroi.
In questa drammatica ed inedita Fotografia, Prigionieri Italiani serviti con razioni di cibo da guardie Austroungariche in un campo a Cividale del Friuli nel novembre 1917, dopo lo sfondamento di Caporetto.
Quanti furono i soldati, graduati e ufficiali italiani fatti prigionieri dagli austriaci e, dopo Caporetto, dai tedeschi? E quanti di essi perirono nei campi di concentramento o non fecero comunque più ritorno alle loro case? Secondo la "Commissione parlamentare d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico", che terminò i lavori nel 1920, i prigionieri italiani furono circa 600.000, di cui 19.500 ufficiali. Ma ancora più impressionante è la cifra dei morti: 100.000 italiani perirono nei campi di concentramento ed il numero è da considerare per difetto, perché, per ammissione degli ex nemici, nel computo sono esclusi i morti nelle compagnie di lavoro, disseminate in ogni angolo dell'Europa centrale. Quali furono le cause della morte? E' questo il dato forse più agghiacciante: solo in minima parte essa dipese dalle ferite contratte in battaglia; la stragrande maggioranza perì per malattia, soprattutto la tubercolosi e l'edema per fame. La fame, il freddo, gli stenti, furono quindi alla base dell'ecatombe dei prigionieri italiani.
Eppure la questione prigionieri era stata già affrontata nel trattato dell'Aja del 1907: l'art. 7 recitava che ai prigionieri doveva essere garantito un trattamento alimentare equivalente a quello riservato alle truppe del paese che li aveva catturati; inoltre ai primi del 1915, pochi mesi dopo lo scoppio del conflitto mondiale, apparso evidente che tutte le norme erano inadeguate, grazie alla iniziativa della Croce Rossa Internazionale, fu creata a Ginevra l'Agenzia di soccorso a favore dei prigionieri di guerra, cui aderirono tutti i paesi belligeranti, che svolse una azione di controllo e stimolo sui vari governi per l'attuazione di misure umanitarie, risultando anche il principale canale di comunicazione tra gli stati belligeranti. Nessun governo aveva però previsto di dover far fronte a prigionieri che arrivavano a ondate di decine di migliaia alla volta: a gennaio del 1915 in Germania vi erano 600.000 ex combattenti, divenuti 1.750.000 un anno dopo, proprio quando la situazione alimentare si faceva difficile anche per la popolazione interna, causa il perdurare del blocco navale inglese. Gli osservatori svizzeri consigliarono allora l'invio diretto di aiuti ai prigionieri da parte delle varie nazioni in guerra, così nell'aprile del 1916 Germania, Francia ed Inghilterra si accordarono in tal senso, allargando l'accordo allo scambio di tutti i prigionieri malati o feriti. In questo modo le tre nazioni poterono salvare un ragguardevole numero dei loro soldati catturati. E l'Italia?
Nel 1916 il governo italiano era stato messo al corrente di quali fossero le effettive condizioni dei soldati fatti prigionieri, ed anche di quali fossero le condizioni della stessa popolazione austriaca; risultava così palese come fosse impossibile per quel paese fornire ai prigionieri di ogni nazionalità i mezzi di sostentamento e di vestiario necessari. Veniva anche fugato ogni dubbio sulla corretta applicazione dell'art. 7 del trattato dell'Aja: le truppe austriache ricevevano lo stesso trattamento alimentare dei prigionieri nei campi di concentramento. Ben consapevole di ciò, il Governo italiano, in perfetta sintonia col Comando Supremo dell'esercito, rifiutò sempre ogni tipo di intervento statale, tollerando appena l'invio di aiuti da parte dei privati cittadini. Per coordinare l'invio dei soccorsi, già nel 1915 era stata creata all'interno della Croce Rossa Italiana la Commissione prigionieri di guerra con a capo il senatore Giuseppe Frascara, che si affiancava ad un analogo istituto militare per la gestione del problema dei prigionieri di guerra austro-ungarici presenti sul territorio italiano, al comando della quale era stato messo il generale Paolo Spingardi. La Commissione prigionieri della C.R.I. aveva anche il compito di gestire il flusso della corrispondenza dai campi di internamento alle famiglie e viceversa, e le lettere prima di essere inoltrate in Italia dovevano passare il visto della censura militare. Il C.S.I., per evitare il diffondersi di notizie considerate “pericolose” ed il conseguente diffondersi del malcontento tra le famiglie nel 1917 avocò a sé il totale controllo della corrispondenza: attraverso la censura militare fu così in grado di controllare tutte le operazioni di invio e ricevimento della corrispondenza tra prigionieri e famiglie. In questo modo si otteneva anche un altro e non secondario risultato: quello di smascherare e colpire eventuali disertori, i quali, a volte, nello scrivere a casa, maledicevano il momento in cui si erano dati volontariamente prigionieri al nemico. Era, questo dei disertori, il chiodo fisso del generale Luigi Cadorna, che trovava concorde nella sua opera di repressione, il capo del Governo Antonio Salandra prima e poi, col governo Boselli, il ministro degli esteri Sidney Sonnino. Il mancato aiuto governativo ai prigionieri doveva servire come deterrente per coloro che avessero intenzione di sfuggire alla durezza della vita al fronte con la resa al “nemico”. Con la propaganda mirata e la censura preventiva tale situazione veniva poi pubblicizzata nel paese, attraverso opuscoli militari e giornali amici. L'effetto della diffusione di queste notizie così di parte fu quello di irritare il governo austriaco che minacciò per ritorsione di chiudere le frontiere ad ogni aiuto proveniente dall'Italia, e fu solo per l'opera di mediazione svolta dalla C.R.I. se l'incidente fu chiuso.
In realtà, la percentuale dei soldati che commisero il reato di diserzione passando al nemico fu minima: la stragrande maggioranza preferì nascondersi all'interno del paese oppure non presentarsi alla chiamata di leva se residente all'estero. Per arginare il fenomeno della diserzione furono emanate norme severissime. Ad esempio il ritardo ammesso per il rientro dalla licenza venne ridotto a 24 ore contro i 5 giorni previsti dal codice penale militare; è facile intuire come questa norma producesse l'effetto contrario: il soldato che per disguidi nei trasporti superava le 24 ore di ritardo nel presentarsi al reparto, disertava per paura delle ritorsioni, perché i tribunali militari erano stati esplicitamente invitati ad applicare il massimo della pena, cioè l'ergastolo o la fucilazione. Ma i provvedimenti colpivano anche la famiglia del disertore o presunto tale: si andava dal blocco dei sussidi di guerra, all'affissione del comunicato di denuncia sulla porta di casa e nell'albo comunale; se il militare sospettato si trovava internato in un campo di concentramento in territorio nemico, alla famiglia era proibito l'invio di corrispondenza e pacchi viveri. Si condannava quindi alla morte civile sia il militare prigioniero che la sua famiglia in Italia. Solo dopo Caporetto, in presenza di un gran numero di sbandati nel paese, il C.S.I. fu costretto ad emanare una specie di sanatoria nei confronti dei disertori a patto che si fossero presentati entro una certa data (bando Cadorna del 2 novembre 1917) che fu prorogata più volte sino al 29 dicembre. Ma già un decreto del 21 aprile 1918 a firma del generale Armando Diaz aggravava la situazione equiparando la diserzione all'interno con quella in faccia al nemico, punibile con la pena di morte. Alla fine del conflitto i processi per diserzione all'interno del paese, cioè per il militare che si allontanava dalle retrovie del fronte o non tornava dalla licenza, furono 150.429 su un totale di 625.263; quelli per passaggio al nemico 2.662, in presenza o in faccia al nemico 9.472.
Nel 1918, alle violente proteste delle famiglie contro l'abbandono dei prigionieri italiani in suolo nemico da parte dello stato, si aggiunsero le accuse di varie nazioni anche alleate: l'assenteismo italiano stava assumendo l'aspetto di scandalo internazionale. Il conte Guido Vinci, delegato generale della C.R.I. a Ginevra, aveva inviato al capo del governo Vittorio Emanuele Orlando una relazione in cui tra l'altro era scritto: "La differenza tra quanto si fa all'estero ed in Italia è stridente; in Francia e Inghilterra si è organizzato un servizio che permette l'invio di 2 chilogrammi di pane la settimana per ogni ufficiale e soldato, la Francia ha deciso di provvedere anche per i Serbi prigionieri. L'America non aveva ancora un prigioniero che già costituiva a Berna immensi depositi per soccorrere la truppa che fosse catturata dal nemico. Nei campi di prigionieri italiani il morale vi è depresso ed eccitato sino alla rivolta: non contro Austria o Germania, ma contro la patria lontana ed immemore dei suoi figli.". Nell'agosto del 1918, per mitigare le accuse internazionali, V.E. Orlando chiese all'onorevole Leonida Bissolati di organizzare soccorsi governativi da affiancare a quelli della Commissione prigionieri della C.R.I.; fu predisposta la spedizione di vagoni di gallette fornite dai privati e dallo Stato italiano: cinque vagoni di pane e gallette, circa 500 quintali, partirono il 16 agosto per i campi di Mauthausen e Sigmundsherberg: un semplice palliativo al problema, come fece notare il giornale “L'Avanti”.
Ma come si viveva nei campi di concentramento? Il campo aveva al centro una costruzione ampia che conteneva i servizi comuni, attorno alla quale si diramavano lunghe file di baracche in legno che potevano contenere dalle 100 alle 250 persone. Nei campi i prigionieri erano divisi per nazionalità ed ufficiali e soldati vivevano in baracche separate. La disciplina e l'amministrazione del campo era gestita dagli stessi ufficiali prigionieri, che si servivano dei graduati per mantenere l'ordine; buono era il trattamento economico degli ufficiali che ricevevano uno stipendio mensile identico al pari grado avversario; a loro venivano regolarmente inoltrati pacchi viveri dall'Italia, in caso di necessità potevano acquistare cibo nelle botteghe dei paesi limitrofi. Nonostante le privazioni e le difficoltà materiali che scaturirono dal prolungarsi del conflitto, la condizione degli ufficiali non fu in alcun modo comparabile a quella dei soldati semplici. I campi dei soldati non furono forniti di nessuna delle comodità offerte agli ufficiali; con l’aumento del numero dei prigionieri le condizioni andarono via via deteriorandosi. I prigionieri erano stipati in enormi stanzoni senza riscaldamento, con pagliericci infestati da pidocchi; dovevano obbligatoriamente lavorare all'esterno, impegnati in agricoltura o nelle fabbriche, per 12 - 14 ore giornaliere. Le mancanze più lievi erano punite con pane e acqua, le bastonate erano considerate una punizione leggera, spesso si finiva legati ad un palo al centro del campo per vari giorni. Le punizioni sembra fossero più severe in Austria e più frequenti in Germania. Non di rado coloro che si dimostrarono maggiormente crudeli nello sfruttamento dei soldati furono quegli italiani delegati alla vigilanza dei compatrioti, perché, grazie a questa attività, ricevevano un trattamento di favore in cibo e vestiario.
I campi di concentramento negli Imperi centrali furono definiti, nel 1918, "le citta dei morenti". Per lenire la fame i prigionieri ingerivano grandi quantità di acqua, ingoiavano erba, terra, pezzetti di legno e carta, anche sassi. Le conseguenze erano morte per dissenteria acuta, o per polmonite, se si gettavano in inverno dentro ai canali di scolo per raccattare la spazzatura delle cucine del campo. La razione di cibo quotidiana che l'Austria riservava ai prigionieri era costituita da un caffè d'orzo al mattino, una minestra di acqua con qualche foglia di rapa a mezzogiorno e a cena una patata con una fettina di pane integrale ed una aringa. Due, tre volte a settimana un minuscolo pezzo di carne. Questo rancio non era di molto differente da quello delle guardie carcerarie, che spesso svenivano per fame in servizio. Scriveva nel suo diario Carlo Salsa, ufficiale d'artiglieria e prigioniero dopo Caporetto a Theresienstadt: "Al campo della truppa, prossimo al nostro, sono concentrati 15.000 soldati: ne muoiono circa 70 al giorno per fame. Spesso questi morti non vengono denunciati subito per poter fruire della loro razione di rancio, i compagni li tengono nascosti sotto i pagliericci fino a che il processo di decomposizione non rende insopportabile la loro presenza." Anche se la censura nemica vietava che nelle lettere fosse denunciato che si soffriva la fame, già ai primi del 1917 la nostra censura aveva notato che nel 90% delle missive provenienti dai campi di prigionia era riportata la frase "..mandate... se volete vedermi ancora..", e di questo era stato informato il Comando Supremo dell'esercito ed il Governo italiano. Il 31 ottobre 1918, a seguito dello sfondamento del fronte da parte dell'esercito italiano a Vittorio Veneto, la sorveglianza austriaca nei campi di concentramento venne quasi a cessare. I soldati di sorveglianza buttarono il fucile e si incamminarono per tornare a casa mentre i prigionieri, ufficiali e soldati, assunsero il comando nei campi e per prima cosa cercarono di placare la fame. Una delle clausole del trattato d'armistizio firmato a Villa Giusti tra Italia e Austria il 3 novembre 1918, indicava nella data del 20 novembre l'inizio del rientro degli ex prigionieri, al ritmo di 20.000 al giorno. Non fu così. L'Austria aprì quel giorno stesso tutti i cancelli dei campi di concentramento sparsi sul suo territorio, mentre in Ungheria ciò era avvenuto il giorno prima. Per conseguenza si ebbe che la maggior parte dei prigionieri arrivò alla frontiera dopo un allucinante viaggio a piedi attraverso regioni sconvolte dalla guerra, dove tutto era stato distrutto o razziato e dove la stessa popolazione moriva di fame.
Diversa fu la situazione in Germania, dove i campi di internamento non furono abbandonati dalle guardie tedesche, permettendo così al governo italiano di organizzare il rientro in treno degli ex prigionieri, anche se con colpevole ritardo, perché i primi rientri iniziarono solo verso la metà di dicembre. Ma non era ancora finita. I soldati rimpatriati dovettero fare i conti con la versione "ufficiale" della rotta di Caporetto, secondo la quale essa era avvenuta per la diserzione in massa delle truppe, consegnatesi senza combattere al nemico; inoltre il governo era consapevole dei sentimenti ostili nutriti dagli ex prigionieri per essere stati abbandonati al loro destino. Già il 7 marzo 1918, il generale Armando Diaz, si era detto preoccupato che il fronte interno (la popolazione italiana) venisse in contatto con i prigionieri malati o feriti resi dall'Austria, e per essi proponeva una semplice soluzione: l'invio nelle colonie della Libia. Ma una norma internazionale del 1917 vietava l'invio in zona di guerra dei prigionieri restituiti se malati o invalidi, e la Libia era zona di guerra. La discussione sul cosa fare e come farlo tra C.S.I. e Governo andò per le lunghe: finì prima la guerra. Ma non si accantonò l'idea di tenerli isolati . Il 30 ottobre il generale Badoglio, ordinò alla 9a armata la costruzione di campi di isolamento della capienza di 20.000 uomini cadauno, inoltre furono riadattati i centri di raccolta degli sbandati dell'ottobre del 1917; il primo campo fu quello di Gossolengo (Piacenza), poi Castelfranco, Rivergaro, Ancona, Bari e tanti altri, all'interno dei quali risultavano internati, a fine dicembre 1918, quasi 500.000 ex prigionieri. Per tutti iniziarono estenuanti interrogatori. Con la fine della guerra, l'opposizione socialista e liberale tornò a fare sentire la sua voce. Naturalmente la prima questione che venne posta al governo in carica fu quella degli ex prigionieri ancora detenuti nei campi di raccolta e sottoposti ad interrogatori la cui lunghezza faceva presagire tempi biblici per giungere ad una qualche conclusione. Per parare il colpo e sviare le accuse, il governo diede vita alla Commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico, ovvero sul trattamento subito dai prigionieri italiani nei campi degli ex Imperi Centrali; si tentava far ricadere tutte le colpe sugli ex nemici assolvendo così il Governo ed il C.S.I. Ma nei campi la protesta continuava a m***are. Si resero necessarie altre misure, di carattere alimentare ed economico col riconoscimento della indennità di una lira per giorno di prigionia subito, a favore dei reduci scagionati dalla accusa di diserzione, i quali vennero mandati a casa con una breve licenza e poi reintegrati nei reparti militari originari, per essere quindi inviati in Macedonia o in Albania. Per loro il congedo arriverà solo un anno dopo. Non bastava. Il 21 febbraio 1919 ci fu un primo seppur parziale decreto di amnistia per i reduci ancora reclusi nei campi. Ma occorsero ancora mesi ed un nuovo governo, presieduto dall'on. Nitti, perché si arrivasse, il 2 settembre, ad una vera amnistia di massa: furono liberati gli ultimi 40.000 detenuti, cancellati 110.000 processi su 160.000 in corso. Veniva finalmente resa pubblica l'opera della Commissione d'inchiesta sui fatti di Caporetto, che scagionava l'insieme delle truppe dall'accusa di aver volontariamente abbandonato le armi per consegnarsi al nemico. Il desiderio della pace, di una esistenza regolare, la necessità di lavorare, fecero dimenticare i propositi di vendetta e rivolta. Con l'avvento del fascismo, si affermò infine una esaltazione eroica della Grande Guerra, e qualsiasi ricordo non celebrativo venne rimosso. Dei prigionieri non si parlò più.
PER NON DIMENTICARE
Foto Archivio Storico Imperial War Museum © IWM Q 60418
Testo di Paolo Antolini
IL SOLDATO DIMENTICATO. La storia di Giovanni Battista Faraldi (Leucotea Edizioni Sanremo). In tutte le Librerie e Webstore.
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