07/10/2022
Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini
Protofemministe e dame cattoliche a Civitavecchia dopo il 1870.
Il 16 settembre 1870 Civitavecchia è liberata (o per alcuni occupata) dalle truppe italiane capitanate dal generale Nino Bixio. Per le vie cittadine donne e uomini festeggiano la fine del governo papalino, il tricolore italiano sventola sulla Fortezza Giulia e su tanti palazzi della città.
Il 2 ottobre, duemilaottantanove cittadini maschi civitavecchiesi votano si al plebiscito per l’unione di Roma e del Lazio al Regno d’Italia sotto il governo monarchico costituzionale del re Vittorio Emanuele II.
Alle successive elezioni municipali, provinciali e nazionali, in cui votarono solo gli uomini appartenenti ai ceti più agiati, furono eletti a sindaco Pietro Guglielmotti, a consigliere provinciale Felice Guglielmi, a deputato Annibale Lesen.
Il sindaco Guglielmotti era un liberale moderato con trascorsi repubblicani che lo avevano costretto per alcuni anni all’esilio. Come molti italiani aveva maturato la convinzione che solo la monarchia aveva concrete possibilità e forte volontà per conquistare con la diplomazia e con le armi l’unità della nazione italiana.
La sua giunta, fra i vari problemi che dovette affrontare in questi primi anni unitari, dedicò particolare attenzione all’educazione delle giovani generazioni. Le signore Elena Montanucci, Luisa Guglielmotti e Francesca Bucci furono le prime donne civitavecchiesi a cui fu assegnato un ruolo all’interno dell’amministrazione municipale, anche per ragioni familiari. Il 23 dicembre 1870 furono nominate ispettrici delle scuole femminili.
Nella Relazione morale dell’amministrazione comunale di Civitavecchia (Roma 1872) è inserito un paragrafo dedicato alle Scuole elementari femminili di cui riportiamo alcuni passi:
mentre si procedette alla nomina di una Direttrice laica, vennero provvisoriamente elette Maestre, quattro delle suore del preziosissimo Sangue, che sino allora avevano atteso alla prestazione dell’insegnamento elementare, con le condizioni, che esse si uniformassero in tutto al regolamento in vigore sulla pubblica istruzione; che si prestassero ove ne fossero mancanti, ad ottenere la patente; che infine riconoscessero a loro Direttrice nelle scuole quella nominata dal Municipio; alle medesime poi venne aggiunta altra maestra laica pei lavori di ago.
Organizzato in questa guisa l’insegnamento elementare femminile, esso ha continuato così fino a questi ultimi tempi. Compresi però della necessità e della convenienza di dare un migliore ordinamento allo insegnamento stesso, voi avete deliberato, non ha guari, di ridurre il personale insegnante totalmente laico, e la Giunta esecutrice della disposizione Consigliare ha aperto il concorso al posto di cinque Maestre, in luogo delle suore che vennero licenziate. Si aggiunge poi a tutto questo, che alle scuole Elementari, andarono unite anche quelle festive per le adulte, e mentre si ha, che le prime hanno sino ad oggi raccolto 245 alunne, le seconde furono frequentate da N.° 43 allieve.
Sulla scuola si accese un acceso scontro ideologico che vide contrapporsi chi era fedele al vecchio ordinamento papale a chi era aperto alle nuove idee liberali che prevedevano un’educazione laica separata dalla dottrina cattolica.
La massima autorità governativa in città era il sottoprefetto: Angelo Lipari fu il primo a ricoprire tale incarico a Civitavecchia. Nelle sue relazioni sullo Spirito pubblico che si respirava in città, Lipari descrisse dettagliatamente la realtà politica civitavecchiese. Realtà ristretta al circoscritto strato della popolazione che poteva permettersi di dedicare tempo alla politica, cioè i benestanti e i pochi che vantavano una discreta istruzione. Il sottoprefetto suddivise l’opinione pubblica di Civitavecchia in tre correnti: la liberale moderata, filogovernativa, ubbidiente all’ordine costituito; i democratici e repubblicani, i cosiddetti esaltati, ligi alla legge ma in pubblico fieramente ostili al governo del re; i reazionari o clericali, fiduciosi di tornare un giorno sotto il papa re, che per un periodo furono maggioritari a Civitavecchia.
Lipari descriveva la realtà politica dell’epoca, declinata al solo genere maschile dato che solo agli uomini, ricchi e colti, era consentito di partecipare alla vita pubblica del giovane regno.
Le donne erano soggette all’autorità dei padri e, quando si sposavano, a quella dei mariti. Non avevano diritto di voto e pertanto non era decoroso che avessero ed esprimessero idee politiche e sociali diverse da quelle che si respiravano in famiglia.
La voce Donna nell’Enciclopedia italiana e dizionario di conversazione di A. Mazzarella, edito nel 1844, delimita bene il recinto culturale in cui erano rinchiuse le donne nella società italiana dell’epoca:
Essere di consueto la donna più disposta alle dilicate che alle grandi cose, aver il cuore più sensitivo che costante, la intelligenza più perspicace che profonda; meglio prestarsi ai voli della fantasia che ai rigori del raziocino; essere d’ordinario le sue buone afflizioni e virtù la docilità, la compassione, la pazienza, l’amore, l’oblio e il generoso sacrificio di sé […]. L’essenza sua è la domesticità: a questa invita il suo fisico più dilicato; ve la allettano le sue tendenze più miti; l’ordine sociale lo domanda, mentre l’altro sesso a tutto quello che è pubblicità felicemente riesce; e la natura, o a dir meglio, la Provvidenza glie ne fa un dovere ponendole accanto un marito da consolare, da assistere, una figliolanza da allevare…
(citato da Catia Bonifazi, L’altra metà del Risorgimento viterbese, 2021)
Non tutte le donne però accettavano di buon grado di essere ristrette nella ritirata sfera domestica. Le signore avevano la possibilità d’incontrarsi in chiesa e nelle pie società di beneficienza, al Teatro Traiano d’inverno e al Pirgo d’estate, nei caffè e nei salotti. Alcune donne civitavecchiesi, in quei primi anni unitari, cercarono di sfuggire ad un’esistenza solo casalinga. Si scorgono le prime istanze di emancipazione femminile, si intravede un germe di protofemminismo anche a Civitavecchia.
Pur se scarso, il materiale tratto dalle pubblicazioni dell’epoca dimostra che negli strati più agiati ed istruiti della componente femminile di Civitavecchia, siano identificabili due schieramenti contrapposti che esprimono una diversa visione della realtà politica, sociale e culturale italiana.
Sul primo fronte si schierarono le agguerrite dame cattoliche che manifestavano pubblicamente la loro fedeltà alla dottrina della Chiesa e agli ammonimenti morali che papa Pio IX, da poco defenestrato dal suo trono temporale, impartì dal Vaticano. Fu lui il 28 settembre 1873, a ricevere gli esponenti della Società promotrice delle buone opere di Civitavecchia, accompagnati dal loro vescovo Gandolfi. Il pontefice rivolse ai fedeli civitavecchiesi accorate parole incentrate in particolare sull’educazione delle giovani generazioni:
Intanto quello che ora vi raccomando è di aver cura della fanciullezza e della gioventù; e lo raccomando specialmente a voi, madri di famiglia che certo ve ne saranno tra le molte donne che vedo qui presenti. Imperocchè la gente che domina non mira ad altro che a togliere dal petto dell’infanzia e della gioventù ogni seme di religione […]
Vi raccomando quei cari figli che Dio vi ha dato; curatene con gran premura la educazione cristiana, giacché sono esposti a grandi pericoli; conduceteli ad alimentarsi spesso del Pane degli Angeli, affinché si fortifichino; allontanateli le mille miglia da certe scuole dirette da maestri enpii e bestemmiatori: mettete loro sott’occhio quei libri che insegnano a fuggire il vizio […].
Ad ascoltarlo, per la Società delle donne erano presenti la presidente Brigida Alibrandi, la vicepresidente Emilia Guglielmotti, la 2° vicepresidente Irene de Filippi, Felice Castagnola., Amalia Acquaroni, Celeste Montanari, Elisa vedova Paleani, Luisa Cardoni, Matilde de Filippi, Edwige Sperandio, Rosmunda Sperandio, Placida Desplas, Anna Rosa Cavicchione. Con loro anche due fanciulle: Gilda Acquaroni e Amalia Calisse.
Le Dame cattoliche di Civitavecchia fecero sentire la loro nitida voce nel 1874 quando il Comune di Roma dispose la rimozione della croce e delle cappelle della Via crucis dall’arena del Colosseo dove erano presenti dal 1750. Gli scavi archeologici all’interno del monumento furono la scusa ufficiale. Tutto il mondo cattolico italiano protestò contro tale azione ritenuta altamente sacrilega.
Le dame civitavecchiesi inviarono la loro protesta al periodico Il Genio cattolico stampato a Reggio Emilia nel numero di maggio 1874. Riportiamo le prime righe:
La sacrilega profanazione dell’Anfiteatro Flavio, non è molto consumata per opera dei moderni spregiatori della Chiesa di Gesù Cristo, ci ha ripieno il cuore di profondo dolore e di indicibile amarezza. E come rimanersi insensibili nel veder profanata quell’arena bagnata dal sangue di tanti Martiri, sangue che al dir di Tertulliano era semenza di cristiani novelli?
La protesta fu sottoscritta dalla presidente Alibrandi, dalle vicepresidenti Guglielmotti e de Filippi, dalla segretaria Rosa Vignola, dalla tesoriera Maddalena D’Andreis, e dalle consigliere Rita de Filippi, Fermina Alibrandi vedova Arata, Serafina Alibrandi, Francesca Palomba, Serafina Castagnola, Angelica d’Ardia, Adelaide Vignola, Maria Arata d’Ardia, Amalia Acquaroni, Eclonide vedova Sperandio, Luisa vedova Paleani, Edwige Sperandio, Eufrasia Chapelle, Serafina Caravani, Felice Castagnola. Erano esponenti delle maggiori famiglie civitavecchiesi dell’epoca.
L’altro schieramento è più fuggente, è difficoltoso recuperare le poche tracce scritte che ha impresso nei giornali dell’epoca. Nei salotti e in alcune manifestazioni pubbliche professa idee radicali e progressiste riconoscendosi nell’apostolato laico di Giuseppe Mazzini:
Educazione, associazione, emancipazione sono concetti costanti del pensiero mazziniano, soprattutto se declinati al femminile: le donne devono educarsi ed essere educatrici di valori, devono associarsi per dare forza al proprio impegno sociale, le donne non debbono essere estranee alla politica per diventare cittadine consapevoli e attive. L’esercizio di una cittadinanza politica da parte delle donne attraverso il voto diviene obiettivo dei mazziniani già a partire dalla metà dell’Ottocento: Mazzini stesso non mancò in diverse occasioni di farsi sostenitore del suffragio femminile declinandolo all’interno di un processo di emancipazione delle donne finalizzato, nello specifico, al successo della causa unitaria e all’affermarsi di una nazione veramente moderna.
(Fiorenza Tarozzi, da internet)
Nella prima metà dell’Ottocento, il salotto più frequentato a Civitavecchia era quello della marchesa Calabrini in cui Benedetto Blasi e gli altri liberali della città amavano discutere di ferrovie, lega doganale e confidavano in un’Italia federale. Le discendenti della Marchesa da anni si erano trasferite a Roma dove, dopo il 1870, partecipavano attivamente alla vita della corte sabauda, ed un salotto del genere non c’era più in città. Sicuramente a Civitavecchia si proseguiva ad incontrarsi e a chiacchierare nei salotti delle case più signorili. La grigia vita di provincia poteva talvolta accendersi per un periodo limitato grazie all’arrivo in città di signore provenienti da realtà urbane più grandi. È il caso dell’arrivo a fine 1873 della moglie del comandante militare della piazza, abituata a frequentare quei salotti milanesi in cui le idee protofemministe iniziavano a germogliare:
E mi piace che tu non ti trovi male nel tuo soggiorno militare, mi piace che tu piaccia e sii arbitra delle eleganze, mi piace che tu non sii distratta dalle cure faticose e inutili di Milano, e che tu possa più liberamente e tranquillamente occuparti del tuo faccin e del tuo spirito. […] Oh tepido sole di Civitavecchia, o mediterraneo mio natale, addio! Sorridete a lei, e rifioritele nella salute e nella gioia il caro viso.
A scrivere queste righe in una lettera del 15 gennaio 1874 fu Giosuè Carducci, allora trentanovenne e già affermatosi nel panorama letterario italiano. A riceverla fu Carolina Cristofori, più giovane di dieci anni, sposata con Domenico Piva, già garibaldino ed ora ufficiale del regio esercito. Furono trasferiti a Civitavecchia per motivi di servizio. Carolina a Milano “frequentava il celebre salotto mondano-letterario della contessa Clarina Maffei. Intelligente, colta (leggeva e parlava in inglese e tedesco), ambiziosa, conscia del proprio fascino, che sapeva (e saprà) dispensare accortamente”. Nell’agosto 1874 il poeta raggiunse la sua amata, approfittando delle manovre militari che condussero il colonnello Piva lontano da Civitavecchia. Trascorsero insieme dieci giorni, abbiamo scarse testimonianze su questo appassionato soggiorno civitavecchiese ma i commenti certamente non furono benevoli verso la signora: Carducci ricorda che una signora alla stazione ferroviaria gli fece un brutto gesto. Ne rimane traccia nell’Odi Barbare con la poesia Pe ‘l Chiarone da Civitavecchia leggendo il Marlowe (Giosuè Carducci, Il leone e la pantera. Lettere d’amore a Lidia 1872-1878, a cura di Guido Davico Bonino, 2010).
Nei salotti le signore commentavano e si scambiavano le riviste femminili dell’epoca. Molte di esse furono dirette e scritte dalle discepole di Mazzini che si erano assunte il compito di istruire le donne italiane. Fra esse spicca Gualberta Alaide Beccari che dal 1868 al 1890 diresse la rivista femminile La Donna periodico d’educazione compilato da donne italiane considerato il primo organo di lotta democratica per le donne in cui ebbero tribuna le prime protofemministe dell’Italia unita. Anche a Civitavecchia la rivista circolò e alcune signore si abbonarono. Di una di esse conosciamo solo le iniziali: nel numero del 25 luglio 1873, la Beccari risponde alla signora E.R. di Civitavecchia che richiedeva un numero arretrato della rivista e l’Albo Cairoli.
Una di esse prese in mano la penna e scrisse una lunga e circostanziata lettera che La Donna pubblica nel suo 231 numero, intitolandola L’istruzione femminile elementare in Civitavecchia (in ritardo) datata 30 marzo 1874. L’anonima autrice, che si firma Un’amica del vero, ricostruisce la storia dell’educazione femminile in città, iniziata nel 1816 con l’apertura delle prime scuole affidate alle Maestre Pie Venerini, poi affidate alle suore del Preziosissimo Sangue, licenziate infine dalla Giunta Guglielmotti che affidò la scuola a maestre laiche. La riportiamo per intero perché è una testimonianza precisa e dettagliata della realtà quotidiana che vivevano le bambine e le adolescenti civitavecchiesi nell’Ottocento pontificio:
La società chiede istruzione, guarda ansiosa le scuole primarie cui spetta l’educazione del suo popolo, poi quando viene il momento di rialzarle a dignità v’ha chi ardisce deprimerle, ingombrarle di dannosi elementi, pretenderne l’impossibile e poscia vituperarle.
Fondar scuole non basta, anche sotto i cessati governi ne esistevano e si spendeva per esse lieti e contenti di nulla o poco imparare, facendo consistere l’educazione in servile ossequio, baciamani ed altre viltà. E dal generale al particolare dirò di alcune che pur troppo avranno avuto riscontro in molte. Parlo delle scuole del paterno regime dirette dalle Suore del Preziosissimo Sangue in Civitavecchia in cui erano costantemente impiegate 9 monache con quasi 200 bambine.
Allo spirare del 1870 presentavano ancora l’aspetto del privilegio di cui erano figlie. Le femminili eran divise in 4 classi, di cui la Ia raccoglieva le predilette dalla natura, la IIa il ceto basso e popolare ma agiato; la IIIa infine e la scoletta vedevano in sé raccolta tutta la miseria del popolo nel suo più lurido aspetto. Un unico cartellone per l’abbici sporco e rotto, un armadio medioevale dello stesso genere, un altarino dentro ed una gran croce fuori con due dita di polvere e sudice panche su cui erano ammonticchiate quelle povere allieve, formavano l’arredo della scuola. A queste ogni giorno si insegnava a leggere, ripetendo l’intero alfabeto dall’a alla z e per istruzione bastava. Poi chi aveva il lavoro, lavorava, chi non l’aveva oziava, bisticciando tutte insieme pater, ave, credi e rosari tutto il tempo rimanente. Si andava e si veniva a tutte l’ore, si frequentava più o meno a piacimento, come si voleva, senza che alla maestra fosse mai venuto in mente di cercare il numero delle sue allieve neppure per curiosità. È cosa impossibile a sapersi, rispondeva con la massima ingenuità a chi glielo domandava, perché le allieve non sono sempre le stesse.
Tacerò che le scuole in discorso erano di passaggio per le altre e dello sguaiato: Sia lodato G. e M. saluto d’obbligo per chi entrava a cui rispondeva su cento toni il gridio scomposto di quelle infelici abbrutite dall’ignoranza, dalla miseria e dall’avvilimento. E con percosse in ogni maniera applicate si otteneva la disciplina da quella confusa moltitudine che annoverava bimbe di 3 anni insieme a giovinette di 15, 16 e anche più.
Da queste si passava alla IIIa nella quale e per il numero minore delle allieve e per la condizione loro sebbene sempre al dissotto della decenza, e le pareti stesse della scuola mostrassero l’untume in più luoghi all’altezza di forse due centimetri, pure si notava una differenza. Colà ad alcune si permetteva di scrivere, imparando macchinalmente col copiare esemplari. E si lavorava poi nel modo che più avanti dissi.
Il fiore infine della cittadinanza, fosse rappresentata da una bimba di 3 o 17 anni, veniva educato nella prima scuola con privilegi, confetti e carezze particolari a seconda del lucro che dava. La storia sacra, il catechismo erano lo studio che interamente e pappagallescamente mandato a memoria dal principio alla fine meritava loro il premio. Si curava passabilmente la calligrafia ed i lavori femminili in modo da abbagliare i parenti più che da contentarli con solide abilità famigliari donnesche. Il premio di condotta era dato a quella che con più bacchettoneria le ingannava. Sonetti, fiori e palchi ecco la poesia della scuola per l’eletta scolaresca e cittadinanza. Ma anche per queste popolazioni era sorto, loro malgrado, il sole di libertà a riscaldare imparziale il povero come il ricco, e fortunatamente era inviata colà una direttrice per cooperare a quell’opera santa di civile redenzione. Vi si accinse collo slancio più vivo del cuore secondato e protetta dai superiori e da’ buoni. Cosa strana, ma vera, i suoi nemici più acerrimi erano quelli che in nome della legge d’uguaglianza venivano rialzati a dignità, altri sordamente si ritiravano, scagliando assurde e vili calunnie, guardando sospettosi quelle innovazioni che credevano bagliori del momento; ed altri più ragionevoli si rassegnavano per sempre sperando ne’ migliori futuri eventi. Rassicurata intanto la trepidante coscienza dei più dalla presenza delle Suore che formavano il personale insegnante si ordinarono alla meglio per le esigenze dei nuovi e più razionali sistemi di educazione. Non si può dividere la scolaresca che in due classi suddividendola in sezioni per il numero. Tutta la istruzione avuta non era che quella che si può avere in una prima cattiva classe.
L’esito degli esami cominciò a diradare il velo de’ pregiudizi, ma era ben poco ancora e molto di essenziale mancava. Per il 1871-72 la direttrice senz’alcun obbligo d’insegnamento assumeva l’istruzione della classe superiore e non stancandosi di chiedere, di pregare, di protestare, giovandosi dell’influenza del buon volere, del consiglio di tutti, grazie all’opera particolare del compianto Sindaco Guglielmotti, ebbe locale ed arredo sufficiente e le scuole mantennero la promessa stata fatta in loro nome. Autorità governative e comunali meravigliate constatavano pubblicamente il singolare profitto e morale progresso della educazione femminile. Si riconobbe la superiorità educativa dell’insegnamento secolare; si sentì che con elementi scevri da pregiudizi e falsi principi tendenti a minare le basi di libero e civile ordinamento sociale altra migliore se ne otterrebbe, e con atto di particolare fermezza il Consiglio si decise a voler insegnanti secolari, spinto anche dal rifiuto delle Suore a prestar l’opera loro nelle scuole festive per le adulte; e questa vittoria morale ne apportava altre di non minore importanza. Ciò avvenne nell’agosto del 72 e nel vegnente anno le scuole femminili di Civitavecchia grazie al senno, all’abilità, allo zelo delle insegnanti furono invero buone scuole e per l’insegnamento e per la relativa morale educazione che pur tanto difetta nelle famiglie cui è ostacolo grave a migliore civiltà. Quanto dalla scuola si poteva pretendere fu fatto e furono encomiate da autorità locali, da ispezioni regolari e straordinarie. Rimane a desiderare maggiore e migliore cooperazione dalle famiglie; ciò che spero avverrà quando colla crescente generazione sia chiaramente conosciuto il bisogno e il vantaggio della educazione; si giunga a reprimere o almeno moderare il vile egoismo che paralizza e soffoca ogni santo sentimento, ogni nobile aspirazione che pur in altri si ammira e non si ha il coraggio di praticare.
Ed è sommamente doloroso che, dopo le fatiche durate da tanti in omaggio al bene, siavi un partito sì audacemente perverso che illudendo pochi inetti, che per disavventura hanno qualche potere, si faccia risuonare all’orecchio di questi apostoli di civiltà l’ingratissima voce di unanimi dimissioni col grettissimo vergognoso pretesto di malintesa economia, ma in verità per ripiombare la gioventù in braccio ai nemici di ogni civile progresso. Io ho fede che ciò non avvenga, che ciò non possa avvenire. Un intimo convincimento mi dice che se pur m’ingannassi il momentaneo trionfo de’ retrivi sarebbe ancora la rovina finale del loro partito.
L’anonima civitavecchiese denunciava il pericolo che l’educazione femminile fosse di nuovo affidata alle religiose con la scusa del risparmio economico. Il tentativo fu sventato e la scuola rimase laica.
Altra questione che interessò le signore civitavecchiesi fu la lotta alla prostituzione legale. Il giornale La Donna raccolse l’appello proveniente dalla Gran Bretagna per l’abolizione della prostituzione. Nelle sue pagine accolse le trascrizioni dei comizi di Josephine Butler leader internazionale del movimento abrogazionista della tratta sessuale delle donne. I suoi discorsi erano tradotti da Giorgina Saffi, la vedova inglese di Aurelio, triumviro con Mazzini nella Repubblica romana del 1849. Nel numero del 15 novembre 1876 fu pubblicata la Risposta delle Signore d’Italia alle Signore della Gran Bretagna ed Irlanda per la soppressione della prostituzione regolata dallo Stato. Riportiamo un paragrafo:
Noi crediamo delitto, davanti a Dio e agli uomini, la triste orrenda schiavitù che, trascinando nel fango la creatura umana, fa della donna strumento passivo e degradato alle più brutali e sfrenate passioni dell’uomo; protestiamo quindi e protesteremo senza posa, contro le Leggi inique e immorali che perpetuano legalizzandola, quella schiavitù.
A favore dell’appello furono raccolte firme in tutta Italia e anche a Civitavecchia la Risposta fu sottoscritta. È utile ricordare che nel 1873 a Civitavecchia si “alzano le colonne” della Simpatica loggia Felice Orsini. Anche la Massoneria non ammette al suo interno le donne ma leggendo le cronache della Rivista massonica apprendiamo che a Civitavecchia le mogli dei liberi muratori erano ammesse volentieri alle manifestazioni pubbliche e alle successive agapi organizzate dalla loggia.
Ad aiutarci ad individuare il nome di qualcuna delle signore civitavecchiesi più sensibili al dibattito sull’emancipazione femminile è paradossalmente un giornale clericale romano che attaccò duramente quattro donne civitavecchiesi colpevoli di nutrire simpatia per Giuseppe Garibaldi, allora ospite in città per le cure termali. Sul numero del 15 agosto 1875 di La nuova frusta fu pubblicata una lunga cronaca da Civitavecchia in occasione del suo soggiorno:
Un berretto ed un bastone, ecco le grandi novità del giorno; e l’uno e l’altro sono come due satelliti che girano intorno all’eroe di Caprera. Il quale prima di partire da Civitavecchia ha ricevuto in dono i due oggetti sullodati. Il primo cioè il berretto, gli fu presentato da quattro donne di Civitavecchia, l’altro gli fu donato da un albergatore, al quale, in cambio del Bastone ricevuto, Garibaldi donò le stampelle. Che brutto regalo. Speriamo che non debba servirgli mai!
Riguardo al berretto, ho da Civitavecchia delle notizie particolari ed autentiche. Esso è costato cento lire le quali furono sborsate dalle quattro signore presentatrici, che si chiamano Bianchelli, Brini, Bellettieri e Parascandalo. Una di queste appartiene al Ghetto di Civitavecchia, il quale in tal guisa ebbe l’onore di essere rappresentato dinnanzi all’eroe.
Mi aggiunge il corrispondente civitavecchiese che qualcuna di queste signore presentatrici non fa che ricordare fra i sospiri i tempi felici di dieci o quindici anni fa, quando i suoi parenti, mercé il commercio che fioriva a Civitavecchia tenevano aperti negozii vastissimi e vi facevano i più grassi affari. Ed ora? Ora, in grazia della libertà, hanno dovuto mettere agli antichi negotii tanto di catenaccio e contentarsi d’una misera botteguccia. È vero, però, che di tante disdette patite si sono abbondantemente compensate con aver la consolazione di offrire un berretto all’eroe!
Il riferimento al Ghetto inganna il cronista romano che adombra una presenza ebraica fra le quattro signore. Anche nella chiusura dell’articolo, il nostro suggerisce la falsità ideologica di almeno una di esse nostalgica dei bei vecchi tempi papalini in cui la sua famiglia faceva grassi affari.
Il solito ed irritante discredito verso le aspirazioni e realizzazioni del mondo femminile che in Italia continua a persistere. Le protofemministe dell’Ottocento trovarono cento anni dopo a Civitavecchia eredi ancora più agguerrite. Negli anni Settanta le donne si organizzarono, fra l’altro, nel Movimento di liberazione delle donna – Gruppo di Civitavecchia e nel Collettivo femminista comunista di Civitavecchia. Anche il mondo cattolico diede vita alla sezione locale del Centro Italiano Femminile. Insieme lottarono per ottenere l’apertura in città del consultorio familiare con azioni anche eclatanti che portarono addirittura alcune di esse in carcere.
Neanche le dure lotte che cento anni dopo videro le donne combattere per i loro diritti, hanno cambiato la situazione nel nostro Paese in cui la discriminazione di genere continua ad esistere ed è oggetto in questi anni di accesa polemica culturale e politica.