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Storie civitavecchiesi di Enrico Ciancarini

Storie civitavecchiesi di Enrico Ciancarini Storie civitavecchiesi narrate da Enrico Ciancarini

Normali funzionamento

01/12/2022

Miglior risposta all’arroganza e alla prepotenza, è la mitezza e la conoscenza.

Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini

Spiriti al Comune di Civitavecchia: le sedute spiritiche del sindaco Francesco Scotti, il nonno di Eugenio Scalfari. – Seconda parte

“Nei primi giorni dello scorso dicembre è morto a Civitavecchia il cap. Francesco Scotti, un appassionato sperimentatore delle medianità che venivano in suo contatto e del quale i lettori di Luce e Ombra” ricorderanno una relazione di sedute tiptologiche pubblicate nel corso dell’anno 1918 (1).
Nella sua Civitavecchia aveva ricoperto con onore ed onestà le cariche civili più ambite: era stato Sindaco, Presidente della Congregazione di Ca**tà e dello Spedale, Presidente della Camera di Commercio e uno dei fondatori benemeriti di quella Società Archeologica per lo studio della regione, interessantissima dal punto di vista etrusco-romano.
Non vi era iniziativa locale di carattere nobile, generoso e intellettuale che non lo contasse fra i suoi caldi patrocinatori; e non per questo smentiva mai la sua ammirabile modestia. Il problema del porto di Civitavecchia lo interessò sempre, ed ebbe a dedicarvi varie sue pubblicazioni che ne palesarono lo spirito di osservazione e di acume pratico nella sua qualità di uomo marino espertissimo.
Egli fu capitano marittimo e la sua gioventù aveva trascorso sul mare. Era anche un discreto pittore di marine, e nel suo studio lascia una numerosa raccolta di soggetti del genere che nella sua passione di dilettante, curava con ogni amore.
Questo uomo che soprattutto ebbe cari i nostri studi e il problema della nostra immortalità, della quale non dubitò un solo istante. È morto con serena e piena coscienza di spiritualista, disponendo dei suoi funerali nella guisa più modesta, senza vari onori e querimonie convenzionali. Aveva sessantanove anni di età.

È il necrologio che la rivista “Luce e Ombra” dedicò al suo collaboratore Francesco Scotti nel primo numero del 1924, a pagina 52. L’ex sindaco di Civitavecchia moriva il 1o dicembre 1923, esattamente novantanove anni fa.
Autore del ricordo è Pietro Raveggi. Nativo di Orbetello, Raveggi dopo alcune esperienze all’estero, ad inizio secolo subì un arresto perché sospettato di essere uno dei complici del regicida Bresci, con cui condivideva gli ideali anarchici, in seguito si stabilì a Milano dove diventò redattore della rivista “Luce e Ombra”.
Nel 1907 per seri problemi di salute, abbandonò il lavoro e Milano, per ritornare ad Orbetello. Qui si dedicò all’attività giornalistica, culturale e politica. Sua grande passione, oltre lo spiritismo, fu l’archeologia. Tali passioni lo accomunano allo Scotti ed è molto probabile che i due siano stati amici e che si siano frequentati in quegli anni, tanto che sarà Raveggi, scomparso nel 1951, a ricordare Francesco Scotti su “Luce e Ombra”. A Raveggi è dedicata la Biblioteca comunale di Orbetello.
Su “Luce e Ombra”, Francesco Scotti pubblica tre articoli durante il 1918, ultimo anno di guerra, intitolati “Sedute tiptologiche”. Prima di esaminare quanto scritto dallo Scotti, ritengo utile illustrare cos’è la “tiptologia” utilizzando la voce apparsa sull’Enciclopedia italiana del 1937:
È la forma più semplice di ricezione delle "comunicazioni" di tipo medianico, e consiste nella traduzione in parole e in frasi dei colpi battuti dai piedi di un tavolo o di altro mobile.
Per quanto la voga dei "tavolini parlanti" si sia diffusa sopra tutto nei primi tempi del movimento spiritistico (v. spiritismo), pratiche del genere sembrano assai più antiche, e se ne ha notizia, p. es., in Ammiano Marcellino e in Tertulliano. In tempi moderni, e subito dopo il primo sorgere dello spiritismo, fu riconosciuto che la legge meccanica della "composizione delle forze" (ossia delle pressioni e trazioni di coloro che tengono le mani sul tavolo) spiega i movimenti di questo senza ricorrere a ipotesi metadinamiche. Dove questa legge non può applicarsi, non si è più nel campo della tiptologia (che come tale è una delle tante espressioni di automatismo o semiautomatismo psichico, individuale o di gruppo) e si sconfina in quello dei fenomeni paracinetici e telecinetici (v. telecinesi). La tiptologia può (ma non deve necessariamente) assumere carattere metapsichico, e ciò qualora le comunicazioni ottenute non siano riconducibili alle mentalità conscie o inconscie dei presenti.

Autore della voce è Emilio Servadio, iniziatore degli studi psicanalitici in Italia, scrittore di saggi di psicanalisi applicata allo studio di certi fenomeni parapsicologi, come la telepatia.
Il primo articolo dello Scotti sulla rivista “Luce e Ombra”, alle pagine da 114 a 118, riporta un cappello “Per la ricerca psichica” e ha una breve premessa a firma della Direzione della rivista:

Il fenomeno tiptologico, per quanto possa sembrare primitivo e povero di elementi di studio, non è perciò meno interessante, e per le deduzioni a cui conduce, si lega alla fenomenologia medianica più complessa con la quale ha comuni i caratteri fondamentali.
Anche per questa via – facilmente accessibile – lo studioso si trova spesso in presenza di manifestazioni impressionanti, talune delle quali trovano spiegazione adeguata soltanto nell’ipotesi spiritica, o, se si vuole, in quella di obbiettivazioni psichiche, intellettualmente autonome, che rispondono a personalità di defunti.
Ché, se alcuni casi di manifestazione di viventi possono deporre a favore dell’ipotesi del subcosciente, ciò non vale a infirmare gli altri, ai quali tale ipotesi non è applicabile.

La Direzione passa poi a presentare il “cronista” di tali sedute spiritiche: il capitano Francesco Scotti “ex-sindaco di Civitavecchia, e attuale presidente della Camera di Commercio, il quale, per questa sua qualità ha potuto – anche più facilmente – procurarsi i documenti ufficiali in appoggio”.
Sulla pagina di “Luce e Ombra” la parola o meglio lo scritto passa allo stesso Scotti che presenta il medium protagonista delle sedute civitavecchiesi di tiptologia:

Il medium, sig. Achille Carnevali conta ora 45 anni; è intelligente ma di mediocre cultura, non avendo fatto che la seconda elementare. Teneva un negozio di mercerie che dovette cedere e si cercò un impiego; egli non crede – almeno così afferma – che si possa comunicare coi morti; si presta di mala voglia alle sedute, è onestissimo e non accetta retribuzione”.
Sulla “Guida commerciale d’Italia e delle colonie” del 1906 risulta che Achille Carnevali era un merciaio che vendeva ombrelli e bastoni a Civitavecchia. Nella stessa guida lo Scotti è registrato come armatore, produttore e venditore di carbone e legna da ardere, di legnami in genere.
Le sedute spiritiche si svolgevano nell’ufficio dello Scotti e vi partecipavano sempre i signori D. Reali, P. Jaforte, e spesso i signori D. Legnani e G. Inesi. Talvolta intervenivano “professori dell’Istituto, magistrati, impiegati, professionisti, ecc.”.
Una ricerca effettuata sulle Guide Monaci sui quattro nomi ha rivelato che Pietro Jaforte era un perito meccanico che lavorava per il Registro Navale Italiano; gli altri dovrebbero essere stati dei commercianti civitavecchiesi, un Giovanni Inesi fu consigliere della Camera di Commercio.
La cosa forse più singolare della vicenda è che le riunioni medianiche attraverso le quali lo “spirito” di un morto entrava in contatto con i vivi, grazie a dei colpi battuti su un tavolo, si svolgevano nell’ufficio del sindaco di Civitavecchia e cosa ancor più sorprendente è che il sindaco, cioè Francesco Scotti, poi scriveva ai suoi colleghi in giro per l’Italia per ottenere conferma del decesso e degli altri dati rivelati dallo “spirito” con cui erano entrati in contatto.
Scotti descrive così le riunioni:

Quando le sedute erano calme, il medium fumava o parlava con qualcuno del circolo ed era sempre molto distratto. Talvolta invece il tavolo medianico sembrava animarsi, aveva dei tremiti espressivi, quasi di commozione; il medium impallidiva, accusava sensazioni inesplicabili, mentre un sudore freddo gli scendeva dalla fronte; egli toglieva allora le mani dal tavolo.

Lo Scotti garantiva per il medium Achille Carnevali affermando che “escludo in modo assoluto che le notizie avute per tale via potessero essere in alcun modo note in precedenza al medium o ai presenti sia nella loro totalità che nei loro particolari”.
La prima seduta spiritica avvenne la sera del 5 gennaio 1913, erano presenti oltre al medium, lo Scotti, Reali, Jaforte e Legnani.
Lo “spirito” che entrò in contatto con il gruppo civitavecchiese era di una donna: “Elisa Gasparini, morta a Milano 16 anni or sono; fui amata compagna del mio Piave”.
Francesco Maria Piave fu il librettista principale di Giuseppe Verdi, personaggio molto noto in Italia. Elisa Gasparini, cantante nata a Gorizia, era sua moglie.
Il 12 gennaio gli spiritisti entrarono nuovamente in contatto con la Gasparini. Intanto, il sindaco di Civitavecchia il 9 gennaio aveva scritto all’Anagrafe del Comune di Milano che rispose il 13 successivo confermando che Elisa era morta il 5 novembre 1906.
Alla seduta del 12 novembre si “presentò” Francesca “Checchina” Tonielli nativa di Pitigliano, morta a 27 anni nel 1909 a Roma, quando le chiesero cosa facesse, rispose “Avevo cambiato amante, l’ultimo mi abbandonò, e mi uccisi con acido fenico…”. Il solerte sindaco scrisse al Comune di Pitigliano che confermò quanto detto dallo “spirito”.
Il 23 novembre al gruppo si aggiunse V. Albert. Lo “spirito” che si manifestò era quello di Elia Aiolfi di Lodi, scultore e pittore. Nella seduta alla domanda “Hai bisogno qualche cosa da noi?”, egli rispose: “Chi ha la mia bambina, chi la comperò? Era un gesso esposto all’Esposizione di Milano”. Interrogando internet, allora non disponibile, si legge che Elia Ajolfi dipinse “Ritratto di bambina” conservato alla Galleria d’Arte Moderna di Milano. Scotti nelle note in cui riporta la conferma a quanto detto dallo “spirito” scriveva che “circa un anno dopo mi occorse di parlare con un pittore lombardo di cui non ricordo il nome, il quale mi disse di aver conosciuto l’Ajolfi, valente scultore che prometteva molto; ed aggiunse che aveva veduto il gesso in discorso all’esposizione di Milano: un vero capolavoro”. Scotti fa confusione fra scultura e pittura.
L’ultima seduta narrata in questo primo articolo è datata 25 novembre 1913. Vi assistettero, oltre le solite persone, due alti magistrati non meglio identificati. Si manifestò F***y Mangili, sepolta a Milano, sorella del senatore Cesare. Nel colloquio, la defunta ricordò la sua generosa donazione al Politecnico e al Conservatorio Verdi. Notizie che furono poi confermate dal Comune di Milano interpellato dal sindaco, ormai giunto al termine della sua amministrazione.

Prosegue.

16/11/2022

Miglior risposta all’arroganza e alla prepotenza, è la mitezza e la conoscenza.

Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini

Spiriti al Comune di Civitavecchia: le sedute spiritiche del sindaco Francesco Scotti, il nonno di Eugenio Scalfari. – Prima parte

Eugenio Scalfari muore il 14 luglio 2022. All’annuncio della morte, lo stesso giorno pubblico su Facebook un post che riproduce il suo primo scritto “giornalistico”. Il piccolo Eugenio aveva pubblicato sul civitavecchiese “Giornaletto della Scuola”, edito dalla scuola elementare Cesare Laurenti da lui frequentata, un breve componimento in cui affermava che “quando sarò grande, anch’io farò parte del valoroso esercito italiano. Viva l’Italia”.
Il giorno dopo, il 15 luglio, nuovo post dedicato a suo nonno, Francesco Scotti, sindaco e imprenditore marittimo, fondatore dell’Associazione archeologica Centumcellae. In quel post citavo lo stesso Eugenio Scalfari, che in “Racconto autobiografico” (2014), pubblicato per il suo novantesimo compleanno, ricordava che il nonno Francesco, padre della madre Domenica, “era anche appassionato di spiritismo e collaborò ad alcune riviste che si occupavano di quell’argomento allora molto in voga”.
Il 18 luglio diffondevo un nuovo post in cui proponevo di “istituire il Premio di giornalismo Eugenio Scalfari – Città di Civitavecchia per ricordare il nostro illustre concittadino e far crescere culturalmente la nostra Città, coinvolgendo illustri sponsor e noti giurati”.
I ricordi del grande giornalista stimolavano la mia curiosità di scoprire qualcosa sullo spiritismo a Civitavecchia nei primi decenni del ventesimo secolo e mi hanno spinto a dedicare una ricerca a Francesco Scotti e a i suoi scritti sull’argomento. In questi mesi ho preso contatto con la Fondazione Biblioteca Bozzano De Boni, con sede a Bologna, che edita la rivista “Luce e Ombra”, il cui primo numero uscì nel dicembre 1900 diretto da Angelo Marzorati e finanziato dall’industriale milanese Achille Brioschi.
Grazie alla cortesia e alla disponibilità dell’architetto Gianfranco Cuccoli, curatore della biblioteca e dell’archivio della Fondazione, ho ricevuto in questi giorni (11 novembre anniversario della fondazione da parte di Francesco Scotti e Salvatore Bastianelli dell’Associazione archeologica Centumcellae) gli articoli che lo Scotti pubblicò su quella rivista dedicata alla ricerca psichica e ai problemi connessi che ancora oggi è edita trimestralmente.
Certamente per ricostruire il rapporto fra Francesco Scotti e il mondo dello spiritismo sarebbe necessario uno spoglio più accurato delle riviste specializzate nell’argomento, edite nei primi anni dello scorso secolo Il catalogo per autori della Biblioteca della Fondazione segnala che lo Scotti nel 1911 pubblicò l’articolo “Una voce misteriosa” sulla rivista “Filosofia della Scienza”, di cui non abbiamo copia, e la serie di articoli nel 1918 apparsi su “Luce e Ombra”. Inoltre, sulla stessa rivista compare una recensione polemica della “Lettera pastorale per la Quaresima 1919” emanata da monsignor Luca Piergiovanni, vescovo di Corneto e Civitavecchia” intitolata “Lo spiritismo” e il necrologio in memoria di Francesco Scotti pubblicato nel primo numero del 1924.
Su internet abbiamo rintracciato l’annata 1907 di “Luce e Ombra” in cui abbiamo rinvenuto piccole tracce lasciate dallo Scotti: a pagina 180 è pubblicata la Sottoscrizione per i lettori di “Luce e Ombra” per una memoria ad Ercole Chiaia: Scotti Francesco, da Civitavecchia, dona Lire 3. Dal Dizionario Biografico degli Italiani (volume 80, 2014): “il medico napoletano Ercole Chiaia, appassionato e studioso di scienze occulte” fu la guida e l’artefice del lancio di Eusapia Palladino (a cui è dedicata la voce sul DBI) famosa medium italiana negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, che fu studiata anche da Cesare Lombroso, raccogliendo la sfida lanciata dal Chiaia.
A pagina 375 una nuova sottoscrizione a favore della famiglia di Giulio Stefani, altro appassionato studioso dello spiritismo ed editore di alcuni giornali ad esso dedicati. Qui a fare l’offerta è il Gruppo Spiritisti di Civitavecchia che dona Lire 6. Rara se non unica testimonianza dell’esistenza di questo gruppo nella nostra città.
Ultima traccia di Francesco Scotti è il dono alla redazione di “Luce e Ombra” del suo opuscolo “A sua Eccellenza Tittoni” pubblicato a Civitavecchia in quel 1907. Tommaso Tittoni, già deputato del Collegio elettorale di Civitavecchia, in quegli anni era ministro degli Esteri nel terzo governo Giolitti. L’opuscolo non è presente nel catalogo unico delle biblioteche italiane.
L’opuscolo è la testimonianza dell’attiva partecipazione di Francesco Scotti alla vita politica ed amministrativa di Civitavecchia in quei primi decenni del Novecento. Lo troviamo assessore nel 1899 nella Giunta comunale presieduta dal sindaco Vincenzo Giacomini, qualche anno dopo è all’opposizione contro la Giunta del sindaco Achille Montanucci.
A Civitavecchia il 1908 vede la vittoria del Blocco popolare, di cui fanno parte socialisti, repubblicani e radicali, che conquistano l’amministrazione comunale con sindaco Luigi Sabbatini, il primo sindaco socialista della Città, Scotti è consigliere comunale.
Nel 1911 è presidente del Comitato cittadino degli enti e delle associazioni economiche e politiche per la ferrovia Orte e pel compimento del porto. Sprona i suoi concittadini ad impegnarsi per lo sviluppo economico della Città: “disgraziatamente siamo assopiti, e ci stiamo beando in musulmana apatia, sempre buoni e sempre sperando, senza riflettere che il destarsi troppo tardi potrebbe portare delle dolorose sorprese e amari disinganni”.
Lo Scotti ha parole dure anche per il governo centrale colpevole nei confronti “di una popolazione che fin qui può dire di essere stata trattata alla stregua di popoli conquistati, specialmente dopo che anch’essa, come le altre consorelle d’Italia, contribuì col sangue dei suoi figli per la redenzione della patria, e rassegnata sopportò l’annullamento di capoluogo di provincia, addivenendo così il più piccolo circondario del Regno, e facendosi inoltre togliere le franchigie che un tempo godeva ed a cui soggiacque con tanta prosaica rassegnazione”.
Il 22 gennaio 1912 è eletto sindaco di Civitavecchia, a seguito di una lunga crisi politica ed amministrativa che aveva costretto Sabbatini a dimettersi sostituito da un regio commissario prefettizio che regge la città per tutto il 1911.
Imprenditore marittimo e ora sindaco, l’impegno dello Scotti nel difendere e ribadire il ruolo della città che amministra si moltiplica: Civitavecchia è la porta marittima di Roma. In quegli anni tale ruolo è messo in seria discussione da alcuni ambienti politici ed imprenditoriali capitolini. Nel numero del 31 maggio 1914 del mensile “Roma marittima”, rivista che promuoveva la costruzione di un nuovo e moderno porto nella Capitale, il sindaco di Civitavecchia pubblicava un intervento in cui sosteneva che “Civitavecchia è il porto di Roma!” anche se “disgraziatamente però Civitavecchia non è ancora alla pari degli altri porti per ciò che concerne sollecitudine delle operazioni commerciali che in esso si compiono, sia per mancanza di sviluppo delle sue banchine, sia per difetto o insufficienza dei mezzi d’opera moderni, e il suo raggio d’azione resta circoscritto alle sole linee longitudinali mancando di linee trasversali”.
Nell’estate del 1914 Scotti è sostituito nella carica di sindaco da Ernesto Del Greco. Viene eletto, però, presidente della Camera di Commercio civitavecchiese, a capo della quale prosegue la sua attività politica e pubblicistica a favore dell’economia cittadina.

La seconda parte della ricerca su Francesco Scotti sarà pubblicata il prossimo 1 dicembre. 99° anniversario della sua morte.

02/11/2022

Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini.

Esmir, l’ultimo schiavo di Civitavecchia.

Marina Caffiero nel suo recente volume “Gli schiavi del papa. Conversioni e libertà dei musulmani a Roma in età moderna” (2022) presenta un documento molto particolare rintracciato nell’Archivio storico del Vicariato di Roma, nel fondo della Pia Casa dei catecumeni, dove nel periodo del regno pontificio erano condotti gli “infedeli” che volevano convertirsi alla religione cattolica: il “Libro dei turchi”.
Fra loro molti provenivano dalle galee pontificie con sede a Civitavecchia dove gli schiavi “turchi” erano incatenati ai remi. Chi chiedeva di convertirsi nutriva la speranza di un trattamento meno duro.
Il registro fu redatto da don Francesco Rovira Bonet, sacerdote francese, che dal 1759 al 1802 amministrò la Casa dei catecumeni. La professoressa Micol Ferrara ha curato la sua trascrizione.
Il primo schiavo registrato come proveniente dalla darsena di Civitavecchia fu Regeb Ben Ali, turco di Tunisi, schiavo del papa di anni 26, battezzato alla Madonna de’ Monti.
Abdalla turco di Tunisi di anni 65 figlio di Alma e di Fatima turchi tunisini, da Civitavecchia ove era schiavo fu portato a questa Pia casa dei catecumeni e ricevuto con licenza del cardinale Protettore.
Alì Bastoncello turco di Tunisi a Civitavecchia manifestò il desiderio di farsi cristiano. Saputolo il papasso, questi andò a dire al comandante, dopo averlo fatto bastonare prima cinquanta volte e poi trenta, che Alì lo voleva uccidere, onde fu messo in catene, ma essendosi scoperto che il papasso diceva così perché voleva impedirgli di farsi cristiano, fu liberato e inviato a Roma l’11 ottobre 1779.
Hammet turco di Tunisi di anni 30, figlio di Ali e di Fatima fu catturato dai cristiani cinque anni fa circa e condotto a Civitavecchia. Un anno fa, stando in un bettolino a mangiare, un soldato gli domandò se voleva essere come il papa: disse di si, onde quel soldato, pigliando dell’acqua colle mani gliela buttò addosso con l’intenzione di battezzarlo e andò con lui dal curato di Civitavecchia ma dicendo che non era né voleva essere cristiano, onde fu messo in fortezza ove stette per otto mesi. Poi fu condotto a Roma dove fu ricevuto nella Pia casa il 4 gennaio 1782.
Acmet turco di Biserta di anni 21 detto Testalunga, figlio di Osman e di Absa coniugi turchi, preso dopo aver naufragato su una barca turca vicino al porto d’Anzio cinque anni fa, fu condotto a Civitavecchia sino a che un anno fa cominciò ad avere il pensiero di farsi cristiano. Quel pensiero saputosi in città e stando all’osteria con un turco chiamato Amor in giorno di vigilia e non volendo il detto Acmet mangiare carne, lo fece uscire fuori con inganno e gli diede una coltellata onde fu portato all’ospedale di Civitavecchia ove essendo in pericolo di morte e istruito il meglio che si poté da uno dei vicecurati, gli fu data l’acqua del Santissimo battesimo. Condotto poi a Roma per meglio istruirlo, fu ricevuto nella Casa dei catecumeni il 12 gennaio 1782.
Maometto, turco di Tunisi di anni 25 a causa di una tempesta fu gettato sulla spiaggia di Anzio e poi portato a Civitavecchia dove fu messo a servizio in casa del signor Tommaso Palomba ove essendo stata portata la comunione si mise a piangere e si dichiarò cristiano, trasferito a Roma il 18 gennaio 1783.
Nel 1796 alcuni schiavi turchi a Civitavecchia sono testimoni di miracolosi avvenimenti:
Alì di Tunisi di anni 40 fu preso dalle galere del papa quattordici anni fa e messo a Civitavecchia ove con altri fuggì, ma per forza, onde non fu castigato. Avendo visto muovere le mani a una Madonna e al suo Bambino, e a una statua di Santa Ferma, si decise di farsi cristiano e avendo manifestato questo suo desiderio, fu mandato a Roma il 15 agosto 1796.
Anche Midilcar e Arson videro muoversi le mani ad una statua della Madonna e ad una di Santa Ferma, forse custodite nella Chiesa matrice di Santa Maria che si affacciava sul porto. Joseph soprannominato Senzaspreco vide voltare gli occhi ad una Madonna che era posta sulla galera detta lo Scarto perché non più idonea alla navigazione.
L’ultimo schiavo registrato proveniente da Civitavecchia fu Alì che dalla città portuale fu inviato a Roma il 13 settembre 1802.
Nella sua tesi di Dottorato, “Essere schiavi. Il dibattito abolizionista e le persistenze della schiavitù negli Stati italiani preunitari (1750-1850)”, la ricercatrice Giulia Bonazza elabora una tabella in cui sono riportati i nomi di ventidue schiavi presenti nella darsena di Civitavecchia alla data del 5 febbraio 1803. Nel 1806 sono ancora presenti a Civitavecchia almeno cinquanta schiavi, di cui quattro deceduti e tre convertiti al cristianesimo. È il caso dello schiavo Alì, catturato nel 1805, che viene istruito alla fede cristiana dal frate cappuccino presidente dell’Ospizio e parroco di Santa Barbara, la parrocchia portuale. Essendosi ammalato gravemente è battezzato il 6 agosto 1806 con il nome di Fortunato.
Un’altra studiosa, Raffaella Sarti, nel suo saggio “Tramonto di schiavitù. Sulle tracce degli ultimi schiavi presenti in Italia (secolo XIX)”, scrive: “Nella documentazione analizzata da Rudt de Collenberg (che arriva al 1815), l’ultimo convertito indicato come schiavo in Italia è un certo Dervis, di Algeri ‘schiavo in Civitavecchia’, con ogni probabilità uno schiavo delle galere pontificie, come molti di quelli elencati nei registri della Casa dei Catecumeni romana. Dervis si converte il 28 marzo 1807 assumendo il nome di Salvatore Giacomo Piccini”.
Nelle ricerche che sto portando avanti sul fenomeno della schiavitù a Civitavecchia, mi sono imbattuto in un documento che testimonia la presenza di schiavi in città almeno fino al 1827.
Il “Diario di Roma” nel numero 81 dell’anno 1827, datato Roma 10 ottobre, riporta la fedele cronaca del battesimo avvenuto nella Cattedrale dedicata a San Francesco, il giorno della sua festa, di Esmir, maomettano di 54 anni, soggetto a diversi padroni nei decenni che fu schiavo, forse il suo ultimo proprietario fu Andrea Lantieri, distinto negoziante civitavecchiese, che fu suo padrino nella cresima:
“Civitavecchia, 5 ottobre
Il giorno 4 del corrente nella chiesa cattedrale di questa città da Monsignor Vincenzo Annovazzi Vescovo di Leros e Suffraganeo, coll’assistenza di tutto il R.mo Capitolo, e numeroso concorso di popolo di ogni rango, fu solennemente conferito il Battessimo e contemporaneamente la Cresima ad un Maomettano per nome Esmir, di anni 54, figlio di Alì e di Alifa, da Baldad, borgo sulla riva orientale del Nilo non lungi da Damiata. Predato nell’età puerile da una galera Sarda sulle acque di Tripoli, mentre navigava col padre, da lui separato, passò sotto varii padroni di nave, senza che alcuno si desse il pensiero d’istruirlo nella Religione Cristiana, ed esortarlo al Battesimo. Finalmente colpito dalla grazia del Signore in questa città, richiese da se stesso il santo Battesimo, mostrandone la più viva brama e il più retto e santo fine, con una avidità maravigliosa di apprendere la Dottrina Cristiana. Gli furono imposti i nomi di Filippo Francesco Antonio Maria. Il Patrino nel santo Battesimo fu il signor Conte Oddo Antonio Dandini tenente Colonnello e Comandante le truppe pontificie in questa Città e Forte; e nella Cresima il Sig. Andrea Lantieri distinto negoziante di questa Città. La sacra funzione fu chiusa da un dotto e commovente discorso del suddetto Prelato Battezzante, il quale amministrò ancora al nuovo Cristiano la SS.ma Eucaristia nel solenne Pontificale, ch’ebbe luogo nella stessa mattina, ricorrendo la festiva memoria del glorioso S. Francesco di Assisi, titolo della Chiesa cattedrale”.
È un documento che arricchisce la storia della schiavitù a Civitavecchia e in Italia, un argomento che per decenni è stato in ombra e che solo negli ultimi anni è stato oggetto di approfondite ricerche. Civitavecchia fu una delle località portuali con la maggiore presenza di schiavi pubblici, cioè di proprietà dello Stato.

17/10/2022

Domenica 23 ottobre alle ore 11 presso il Cimitero monumentale, nel settore ebraico, sarà inaugurata una lapide a ricordo della civitavecchiese Italia Astrologo e di suo marito Abramo Di Veroli rastrellati nel ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 e trucidati ad Auschwitz la settimana successiva, settantanove anni fa, perché ebrei.
Italia Astrologo era nata a Civitavecchia il 2 febbraio 1880 e abbiamo ritenuto giusto che fosse ricordata nella sua città natale con una lapide posta nel Cimitero monumentale della nostra città insieme a suo marito Abramo, affinché la memoria del loro olocausto, insieme a quello di milioni di ebrei e di altri perseguitati per motivi politici, religiosi, sessuali, culturali, diventi patrimonio condiviso nella nostra Comunità che in quella guerra molto sofferse per la perdita di vite umane e distruzioni materiali per i bombardamenti angloamericani nel 1943 e 1944, e per le devastazioni ad opera dell’esercito occupante tedesco.
La lapide è stata generosamente donata alla Città dalla Tittozzi Onoranze Funebri di Alessio Gregori ed Alfonso Russo che la nostra Associazione ringrazia.
Società Storica Civitavecchiese

07/10/2022

Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini

Protofemministe e dame cattoliche a Civitavecchia dopo il 1870.

Il 16 settembre 1870 Civitavecchia è liberata (o per alcuni occupata) dalle truppe italiane capitanate dal generale Nino Bixio. Per le vie cittadine donne e uomini festeggiano la fine del governo papalino, il tricolore italiano sventola sulla Fortezza Giulia e su tanti palazzi della città.
Il 2 ottobre, duemilaottantanove cittadini maschi civitavecchiesi votano si al plebiscito per l’unione di Roma e del Lazio al Regno d’Italia sotto il governo monarchico costituzionale del re Vittorio Emanuele II.
Alle successive elezioni municipali, provinciali e nazionali, in cui votarono solo gli uomini appartenenti ai ceti più agiati, furono eletti a sindaco Pietro Guglielmotti, a consigliere provinciale Felice Guglielmi, a deputato Annibale Lesen.
Il sindaco Guglielmotti era un liberale moderato con trascorsi repubblicani che lo avevano costretto per alcuni anni all’esilio. Come molti italiani aveva maturato la convinzione che solo la monarchia aveva concrete possibilità e forte volontà per conquistare con la diplomazia e con le armi l’unità della nazione italiana.
La sua giunta, fra i vari problemi che dovette affrontare in questi primi anni unitari, dedicò particolare attenzione all’educazione delle giovani generazioni. Le signore Elena Montanucci, Luisa Guglielmotti e Francesca Bucci furono le prime donne civitavecchiesi a cui fu assegnato un ruolo all’interno dell’amministrazione municipale, anche per ragioni familiari. Il 23 dicembre 1870 furono nominate ispettrici delle scuole femminili.
Nella Relazione morale dell’amministrazione comunale di Civitavecchia (Roma 1872) è inserito un paragrafo dedicato alle Scuole elementari femminili di cui riportiamo alcuni passi:

mentre si procedette alla nomina di una Direttrice laica, vennero provvisoriamente elette Maestre, quattro delle suore del preziosissimo Sangue, che sino allora avevano atteso alla prestazione dell’insegnamento elementare, con le condizioni, che esse si uniformassero in tutto al regolamento in vigore sulla pubblica istruzione; che si prestassero ove ne fossero mancanti, ad ottenere la patente; che infine riconoscessero a loro Direttrice nelle scuole quella nominata dal Municipio; alle medesime poi venne aggiunta altra maestra laica pei lavori di ago.
Organizzato in questa guisa l’insegnamento elementare femminile, esso ha continuato così fino a questi ultimi tempi. Compresi però della necessità e della convenienza di dare un migliore ordinamento allo insegnamento stesso, voi avete deliberato, non ha guari, di ridurre il personale insegnante totalmente laico, e la Giunta esecutrice della disposizione Consigliare ha aperto il concorso al posto di cinque Maestre, in luogo delle suore che vennero licenziate. Si aggiunge poi a tutto questo, che alle scuole Elementari, andarono unite anche quelle festive per le adulte, e mentre si ha, che le prime hanno sino ad oggi raccolto 245 alunne, le seconde furono frequentate da N.° 43 allieve.

Sulla scuola si accese un acceso scontro ideologico che vide contrapporsi chi era fedele al vecchio ordinamento papale a chi era aperto alle nuove idee liberali che prevedevano un’educazione laica separata dalla dottrina cattolica.
La massima autorità governativa in città era il sottoprefetto: Angelo Lipari fu il primo a ricoprire tale incarico a Civitavecchia. Nelle sue relazioni sullo Spirito pubblico che si respirava in città, Lipari descrisse dettagliatamente la realtà politica civitavecchiese. Realtà ristretta al circoscritto strato della popolazione che poteva permettersi di dedicare tempo alla politica, cioè i benestanti e i pochi che vantavano una discreta istruzione. Il sottoprefetto suddivise l’opinione pubblica di Civitavecchia in tre correnti: la liberale moderata, filogovernativa, ubbidiente all’ordine costituito; i democratici e repubblicani, i cosiddetti esaltati, ligi alla legge ma in pubblico fieramente ostili al governo del re; i reazionari o clericali, fiduciosi di tornare un giorno sotto il papa re, che per un periodo furono maggioritari a Civitavecchia.
Lipari descriveva la realtà politica dell’epoca, declinata al solo genere maschile dato che solo agli uomini, ricchi e colti, era consentito di partecipare alla vita pubblica del giovane regno.
Le donne erano soggette all’autorità dei padri e, quando si sposavano, a quella dei mariti. Non avevano diritto di voto e pertanto non era decoroso che avessero ed esprimessero idee politiche e sociali diverse da quelle che si respiravano in famiglia.
La voce Donna nell’Enciclopedia italiana e dizionario di conversazione di A. Mazzarella, edito nel 1844, delimita bene il recinto culturale in cui erano rinchiuse le donne nella società italiana dell’epoca:

Essere di consueto la donna più disposta alle dilicate che alle grandi cose, aver il cuore più sensitivo che costante, la intelligenza più perspicace che profonda; meglio prestarsi ai voli della fantasia che ai rigori del raziocino; essere d’ordinario le sue buone afflizioni e virtù la docilità, la compassione, la pazienza, l’amore, l’oblio e il generoso sacrificio di sé […]. L’essenza sua è la domesticità: a questa invita il suo fisico più dilicato; ve la allettano le sue tendenze più miti; l’ordine sociale lo domanda, mentre l’altro sesso a tutto quello che è pubblicità felicemente riesce; e la natura, o a dir meglio, la Provvidenza glie ne fa un dovere ponendole accanto un marito da consolare, da assistere, una figliolanza da allevare…
(citato da Catia Bonifazi, L’altra metà del Risorgimento viterbese, 2021)

Non tutte le donne però accettavano di buon grado di essere ristrette nella ritirata sfera domestica. Le signore avevano la possibilità d’incontrarsi in chiesa e nelle pie società di beneficienza, al Teatro Traiano d’inverno e al Pirgo d’estate, nei caffè e nei salotti. Alcune donne civitavecchiesi, in quei primi anni unitari, cercarono di sfuggire ad un’esistenza solo casalinga. Si scorgono le prime istanze di emancipazione femminile, si intravede un germe di protofemminismo anche a Civitavecchia.
Pur se scarso, il materiale tratto dalle pubblicazioni dell’epoca dimostra che negli strati più agiati ed istruiti della componente femminile di Civitavecchia, siano identificabili due schieramenti contrapposti che esprimono una diversa visione della realtà politica, sociale e culturale italiana.
Sul primo fronte si schierarono le agguerrite dame cattoliche che manifestavano pubblicamente la loro fedeltà alla dottrina della Chiesa e agli ammonimenti morali che papa Pio IX, da poco defenestrato dal suo trono temporale, impartì dal Vaticano. Fu lui il 28 settembre 1873, a ricevere gli esponenti della Società promotrice delle buone opere di Civitavecchia, accompagnati dal loro vescovo Gandolfi. Il pontefice rivolse ai fedeli civitavecchiesi accorate parole incentrate in particolare sull’educazione delle giovani generazioni:

Intanto quello che ora vi raccomando è di aver cura della fanciullezza e della gioventù; e lo raccomando specialmente a voi, madri di famiglia che certo ve ne saranno tra le molte donne che vedo qui presenti. Imperocchè la gente che domina non mira ad altro che a togliere dal petto dell’infanzia e della gioventù ogni seme di religione […]
Vi raccomando quei cari figli che Dio vi ha dato; curatene con gran premura la educazione cristiana, giacché sono esposti a grandi pericoli; conduceteli ad alimentarsi spesso del Pane degli Angeli, affinché si fortifichino; allontanateli le mille miglia da certe scuole dirette da maestri enpii e bestemmiatori: mettete loro sott’occhio quei libri che insegnano a fuggire il vizio […].

Ad ascoltarlo, per la Società delle donne erano presenti la presidente Brigida Alibrandi, la vicepresidente Emilia Guglielmotti, la 2° vicepresidente Irene de Filippi, Felice Castagnola., Amalia Acquaroni, Celeste Montanari, Elisa vedova Paleani, Luisa Cardoni, Matilde de Filippi, Edwige Sperandio, Rosmunda Sperandio, Placida Desplas, Anna Rosa Cavicchione. Con loro anche due fanciulle: Gilda Acquaroni e Amalia Calisse.
Le Dame cattoliche di Civitavecchia fecero sentire la loro nitida voce nel 1874 quando il Comune di Roma dispose la rimozione della croce e delle cappelle della Via crucis dall’arena del Colosseo dove erano presenti dal 1750. Gli scavi archeologici all’interno del monumento furono la scusa ufficiale. Tutto il mondo cattolico italiano protestò contro tale azione ritenuta altamente sacrilega.
Le dame civitavecchiesi inviarono la loro protesta al periodico Il Genio cattolico stampato a Reggio Emilia nel numero di maggio 1874. Riportiamo le prime righe:

La sacrilega profanazione dell’Anfiteatro Flavio, non è molto consumata per opera dei moderni spregiatori della Chiesa di Gesù Cristo, ci ha ripieno il cuore di profondo dolore e di indicibile amarezza. E come rimanersi insensibili nel veder profanata quell’arena bagnata dal sangue di tanti Martiri, sangue che al dir di Tertulliano era semenza di cristiani novelli?

La protesta fu sottoscritta dalla presidente Alibrandi, dalle vicepresidenti Guglielmotti e de Filippi, dalla segretaria Rosa Vignola, dalla tesoriera Maddalena D’Andreis, e dalle consigliere Rita de Filippi, Fermina Alibrandi vedova Arata, Serafina Alibrandi, Francesca Palomba, Serafina Castagnola, Angelica d’Ardia, Adelaide Vignola, Maria Arata d’Ardia, Amalia Acquaroni, Eclonide vedova Sperandio, Luisa vedova Paleani, Edwige Sperandio, Eufrasia Chapelle, Serafina Caravani, Felice Castagnola. Erano esponenti delle maggiori famiglie civitavecchiesi dell’epoca.
L’altro schieramento è più fuggente, è difficoltoso recuperare le poche tracce scritte che ha impresso nei giornali dell’epoca. Nei salotti e in alcune manifestazioni pubbliche professa idee radicali e progressiste riconoscendosi nell’apostolato laico di Giuseppe Mazzini:

Educazione, associazione, emancipazione sono concetti costanti del pensiero mazziniano, soprattutto se declinati al femminile: le donne devono educarsi ed essere educatrici di valori, devono associarsi per dare forza al proprio impegno sociale, le donne non debbono essere estranee alla politica per diventare cittadine consapevoli e attive. L’esercizio di una cittadinanza politica da parte delle donne attraverso il voto diviene obiettivo dei mazziniani già a partire dalla metà dell’Ottocento: Mazzini stesso non mancò in diverse occasioni di farsi sostenitore del suffragio femminile declinandolo all’interno di un processo di emancipazione delle donne finalizzato, nello specifico, al successo della causa unitaria e all’affermarsi di una nazione veramente moderna.
(Fiorenza Tarozzi, da internet)

Nella prima metà dell’Ottocento, il salotto più frequentato a Civitavecchia era quello della marchesa Calabrini in cui Benedetto Blasi e gli altri liberali della città amavano discutere di ferrovie, lega doganale e confidavano in un’Italia federale. Le discendenti della Marchesa da anni si erano trasferite a Roma dove, dopo il 1870, partecipavano attivamente alla vita della corte sabauda, ed un salotto del genere non c’era più in città. Sicuramente a Civitavecchia si proseguiva ad incontrarsi e a chiacchierare nei salotti delle case più signorili. La grigia vita di provincia poteva talvolta accendersi per un periodo limitato grazie all’arrivo in città di signore provenienti da realtà urbane più grandi. È il caso dell’arrivo a fine 1873 della moglie del comandante militare della piazza, abituata a frequentare quei salotti milanesi in cui le idee protofemministe iniziavano a germogliare:

E mi piace che tu non ti trovi male nel tuo soggiorno militare, mi piace che tu piaccia e sii arbitra delle eleganze, mi piace che tu non sii distratta dalle cure faticose e inutili di Milano, e che tu possa più liberamente e tranquillamente occuparti del tuo faccin e del tuo spirito. […] Oh tepido sole di Civitavecchia, o mediterraneo mio natale, addio! Sorridete a lei, e rifioritele nella salute e nella gioia il caro viso.

A scrivere queste righe in una lettera del 15 gennaio 1874 fu Giosuè Carducci, allora trentanovenne e già affermatosi nel panorama letterario italiano. A riceverla fu Carolina Cristofori, più giovane di dieci anni, sposata con Domenico Piva, già garibaldino ed ora ufficiale del regio esercito. Furono trasferiti a Civitavecchia per motivi di servizio. Carolina a Milano “frequentava il celebre salotto mondano-letterario della contessa Clarina Maffei. Intelligente, colta (leggeva e parlava in inglese e tedesco), ambiziosa, conscia del proprio fascino, che sapeva (e saprà) dispensare accortamente”. Nell’agosto 1874 il poeta raggiunse la sua amata, approfittando delle manovre militari che condussero il colonnello Piva lontano da Civitavecchia. Trascorsero insieme dieci giorni, abbiamo scarse testimonianze su questo appassionato soggiorno civitavecchiese ma i commenti certamente non furono benevoli verso la signora: Carducci ricorda che una signora alla stazione ferroviaria gli fece un brutto gesto. Ne rimane traccia nell’Odi Barbare con la poesia Pe ‘l Chiarone da Civitavecchia leggendo il Marlowe (Giosuè Carducci, Il leone e la pantera. Lettere d’amore a Lidia 1872-1878, a cura di Guido Davico Bonino, 2010).
Nei salotti le signore commentavano e si scambiavano le riviste femminili dell’epoca. Molte di esse furono dirette e scritte dalle discepole di Mazzini che si erano assunte il compito di istruire le donne italiane. Fra esse spicca Gualberta Alaide Beccari che dal 1868 al 1890 diresse la rivista femminile La Donna periodico d’educazione compilato da donne italiane considerato il primo organo di lotta democratica per le donne in cui ebbero tribuna le prime protofemministe dell’Italia unita. Anche a Civitavecchia la rivista circolò e alcune signore si abbonarono. Di una di esse conosciamo solo le iniziali: nel numero del 25 luglio 1873, la Beccari risponde alla signora E.R. di Civitavecchia che richiedeva un numero arretrato della rivista e l’Albo Cairoli.
Una di esse prese in mano la penna e scrisse una lunga e circostanziata lettera che La Donna pubblica nel suo 231 numero, intitolandola L’istruzione femminile elementare in Civitavecchia (in ritardo) datata 30 marzo 1874. L’anonima autrice, che si firma Un’amica del vero, ricostruisce la storia dell’educazione femminile in città, iniziata nel 1816 con l’apertura delle prime scuole affidate alle Maestre Pie Venerini, poi affidate alle suore del Preziosissimo Sangue, licenziate infine dalla Giunta Guglielmotti che affidò la scuola a maestre laiche. La riportiamo per intero perché è una testimonianza precisa e dettagliata della realtà quotidiana che vivevano le bambine e le adolescenti civitavecchiesi nell’Ottocento pontificio:

La società chiede istruzione, guarda ansiosa le scuole primarie cui spetta l’educazione del suo popolo, poi quando viene il momento di rialzarle a dignità v’ha chi ardisce deprimerle, ingombrarle di dannosi elementi, pretenderne l’impossibile e poscia vituperarle.
Fondar scuole non basta, anche sotto i cessati governi ne esistevano e si spendeva per esse lieti e contenti di nulla o poco imparare, facendo consistere l’educazione in servile ossequio, baciamani ed altre viltà. E dal generale al particolare dirò di alcune che pur troppo avranno avuto riscontro in molte. Parlo delle scuole del paterno regime dirette dalle Suore del Preziosissimo Sangue in Civitavecchia in cui erano costantemente impiegate 9 monache con quasi 200 bambine.
Allo spirare del 1870 presentavano ancora l’aspetto del privilegio di cui erano figlie. Le femminili eran divise in 4 classi, di cui la Ia raccoglieva le predilette dalla natura, la IIa il ceto basso e popolare ma agiato; la IIIa infine e la scoletta vedevano in sé raccolta tutta la miseria del popolo nel suo più lurido aspetto. Un unico cartellone per l’abbici sporco e rotto, un armadio medioevale dello stesso genere, un altarino dentro ed una gran croce fuori con due dita di polvere e sudice panche su cui erano ammonticchiate quelle povere allieve, formavano l’arredo della scuola. A queste ogni giorno si insegnava a leggere, ripetendo l’intero alfabeto dall’a alla z e per istruzione bastava. Poi chi aveva il lavoro, lavorava, chi non l’aveva oziava, bisticciando tutte insieme pater, ave, credi e rosari tutto il tempo rimanente. Si andava e si veniva a tutte l’ore, si frequentava più o meno a piacimento, come si voleva, senza che alla maestra fosse mai venuto in mente di cercare il numero delle sue allieve neppure per curiosità. È cosa impossibile a sapersi, rispondeva con la massima ingenuità a chi glielo domandava, perché le allieve non sono sempre le stesse.
Tacerò che le scuole in discorso erano di passaggio per le altre e dello sguaiato: Sia lodato G. e M. saluto d’obbligo per chi entrava a cui rispondeva su cento toni il gridio scomposto di quelle infelici abbrutite dall’ignoranza, dalla miseria e dall’avvilimento. E con percosse in ogni maniera applicate si otteneva la disciplina da quella confusa moltitudine che annoverava bimbe di 3 anni insieme a giovinette di 15, 16 e anche più.
Da queste si passava alla IIIa nella quale e per il numero minore delle allieve e per la condizione loro sebbene sempre al dissotto della decenza, e le pareti stesse della scuola mostrassero l’untume in più luoghi all’altezza di forse due centimetri, pure si notava una differenza. Colà ad alcune si permetteva di scrivere, imparando macchinalmente col copiare esemplari. E si lavorava poi nel modo che più avanti dissi.
Il fiore infine della cittadinanza, fosse rappresentata da una bimba di 3 o 17 anni, veniva educato nella prima scuola con privilegi, confetti e carezze particolari a seconda del lucro che dava. La storia sacra, il catechismo erano lo studio che interamente e pappagallescamente mandato a memoria dal principio alla fine meritava loro il premio. Si curava passabilmente la calligrafia ed i lavori femminili in modo da abbagliare i parenti più che da contentarli con solide abilità famigliari donnesche. Il premio di condotta era dato a quella che con più bacchettoneria le ingannava. Sonetti, fiori e palchi ecco la poesia della scuola per l’eletta scolaresca e cittadinanza. Ma anche per queste popolazioni era sorto, loro malgrado, il sole di libertà a riscaldare imparziale il povero come il ricco, e fortunatamente era inviata colà una direttrice per cooperare a quell’opera santa di civile redenzione. Vi si accinse collo slancio più vivo del cuore secondato e protetta dai superiori e da’ buoni. Cosa strana, ma vera, i suoi nemici più acerrimi erano quelli che in nome della legge d’uguaglianza venivano rialzati a dignità, altri sordamente si ritiravano, scagliando assurde e vili calunnie, guardando sospettosi quelle innovazioni che credevano bagliori del momento; ed altri più ragionevoli si rassegnavano per sempre sperando ne’ migliori futuri eventi. Rassicurata intanto la trepidante coscienza dei più dalla presenza delle Suore che formavano il personale insegnante si ordinarono alla meglio per le esigenze dei nuovi e più razionali sistemi di educazione. Non si può dividere la scolaresca che in due classi suddividendola in sezioni per il numero. Tutta la istruzione avuta non era che quella che si può avere in una prima cattiva classe.
L’esito degli esami cominciò a diradare il velo de’ pregiudizi, ma era ben poco ancora e molto di essenziale mancava. Per il 1871-72 la direttrice senz’alcun obbligo d’insegnamento assumeva l’istruzione della classe superiore e non stancandosi di chiedere, di pregare, di protestare, giovandosi dell’influenza del buon volere, del consiglio di tutti, grazie all’opera particolare del compianto Sindaco Guglielmotti, ebbe locale ed arredo sufficiente e le scuole mantennero la promessa stata fatta in loro nome. Autorità governative e comunali meravigliate constatavano pubblicamente il singolare profitto e morale progresso della educazione femminile. Si riconobbe la superiorità educativa dell’insegnamento secolare; si sentì che con elementi scevri da pregiudizi e falsi principi tendenti a minare le basi di libero e civile ordinamento sociale altra migliore se ne otterrebbe, e con atto di particolare fermezza il Consiglio si decise a voler insegnanti secolari, spinto anche dal rifiuto delle Suore a prestar l’opera loro nelle scuole festive per le adulte; e questa vittoria morale ne apportava altre di non minore importanza. Ciò avvenne nell’agosto del 72 e nel vegnente anno le scuole femminili di Civitavecchia grazie al senno, all’abilità, allo zelo delle insegnanti furono invero buone scuole e per l’insegnamento e per la relativa morale educazione che pur tanto difetta nelle famiglie cui è ostacolo grave a migliore civiltà. Quanto dalla scuola si poteva pretendere fu fatto e furono encomiate da autorità locali, da ispezioni regolari e straordinarie. Rimane a desiderare maggiore e migliore cooperazione dalle famiglie; ciò che spero avverrà quando colla crescente generazione sia chiaramente conosciuto il bisogno e il vantaggio della educazione; si giunga a reprimere o almeno moderare il vile egoismo che paralizza e soffoca ogni santo sentimento, ogni nobile aspirazione che pur in altri si ammira e non si ha il coraggio di praticare.
Ed è sommamente doloroso che, dopo le fatiche durate da tanti in omaggio al bene, siavi un partito sì audacemente perverso che illudendo pochi inetti, che per disavventura hanno qualche potere, si faccia risuonare all’orecchio di questi apostoli di civiltà l’ingratissima voce di unanimi dimissioni col grettissimo vergognoso pretesto di malintesa economia, ma in verità per ripiombare la gioventù in braccio ai nemici di ogni civile progresso. Io ho fede che ciò non avvenga, che ciò non possa avvenire. Un intimo convincimento mi dice che se pur m’ingannassi il momentaneo trionfo de’ retrivi sarebbe ancora la rovina finale del loro partito.

L’anonima civitavecchiese denunciava il pericolo che l’educazione femminile fosse di nuovo affidata alle religiose con la scusa del risparmio economico. Il tentativo fu sventato e la scuola rimase laica.
Altra questione che interessò le signore civitavecchiesi fu la lotta alla prostituzione legale. Il giornale La Donna raccolse l’appello proveniente dalla Gran Bretagna per l’abolizione della prostituzione. Nelle sue pagine accolse le trascrizioni dei comizi di Josephine Butler leader internazionale del movimento abrogazionista della tratta sessuale delle donne. I suoi discorsi erano tradotti da Giorgina Saffi, la vedova inglese di Aurelio, triumviro con Mazzini nella Repubblica romana del 1849. Nel numero del 15 novembre 1876 fu pubblicata la Risposta delle Signore d’Italia alle Signore della Gran Bretagna ed Irlanda per la soppressione della prostituzione regolata dallo Stato. Riportiamo un paragrafo:

Noi crediamo delitto, davanti a Dio e agli uomini, la triste orrenda schiavitù che, trascinando nel fango la creatura umana, fa della donna strumento passivo e degradato alle più brutali e sfrenate passioni dell’uomo; protestiamo quindi e protesteremo senza posa, contro le Leggi inique e immorali che perpetuano legalizzandola, quella schiavitù.

A favore dell’appello furono raccolte firme in tutta Italia e anche a Civitavecchia la Risposta fu sottoscritta. È utile ricordare che nel 1873 a Civitavecchia si “alzano le colonne” della Simpatica loggia Felice Orsini. Anche la Massoneria non ammette al suo interno le donne ma leggendo le cronache della Rivista massonica apprendiamo che a Civitavecchia le mogli dei liberi muratori erano ammesse volentieri alle manifestazioni pubbliche e alle successive agapi organizzate dalla loggia.
Ad aiutarci ad individuare il nome di qualcuna delle signore civitavecchiesi più sensibili al dibattito sull’emancipazione femminile è paradossalmente un giornale clericale romano che attaccò duramente quattro donne civitavecchiesi colpevoli di nutrire simpatia per Giuseppe Garibaldi, allora ospite in città per le cure termali. Sul numero del 15 agosto 1875 di La nuova frusta fu pubblicata una lunga cronaca da Civitavecchia in occasione del suo soggiorno:

Un berretto ed un bastone, ecco le grandi novità del giorno; e l’uno e l’altro sono come due satelliti che girano intorno all’eroe di Caprera. Il quale prima di partire da Civitavecchia ha ricevuto in dono i due oggetti sullodati. Il primo cioè il berretto, gli fu presentato da quattro donne di Civitavecchia, l’altro gli fu donato da un albergatore, al quale, in cambio del Bastone ricevuto, Garibaldi donò le stampelle. Che brutto regalo. Speriamo che non debba servirgli mai!
Riguardo al berretto, ho da Civitavecchia delle notizie particolari ed autentiche. Esso è costato cento lire le quali furono sborsate dalle quattro signore presentatrici, che si chiamano Bianchelli, Brini, Bellettieri e Parascandalo. Una di queste appartiene al Ghetto di Civitavecchia, il quale in tal guisa ebbe l’onore di essere rappresentato dinnanzi all’eroe.
Mi aggiunge il corrispondente civitavecchiese che qualcuna di queste signore presentatrici non fa che ricordare fra i sospiri i tempi felici di dieci o quindici anni fa, quando i suoi parenti, mercé il commercio che fioriva a Civitavecchia tenevano aperti negozii vastissimi e vi facevano i più grassi affari. Ed ora? Ora, in grazia della libertà, hanno dovuto mettere agli antichi negotii tanto di catenaccio e contentarsi d’una misera botteguccia. È vero, però, che di tante disdette patite si sono abbondantemente compensate con aver la consolazione di offrire un berretto all’eroe!

Il riferimento al Ghetto inganna il cronista romano che adombra una presenza ebraica fra le quattro signore. Anche nella chiusura dell’articolo, il nostro suggerisce la falsità ideologica di almeno una di esse nostalgica dei bei vecchi tempi papalini in cui la sua famiglia faceva grassi affari.
Il solito ed irritante discredito verso le aspirazioni e realizzazioni del mondo femminile che in Italia continua a persistere. Le protofemministe dell’Ottocento trovarono cento anni dopo a Civitavecchia eredi ancora più agguerrite. Negli anni Settanta le donne si organizzarono, fra l’altro, nel Movimento di liberazione delle donna – Gruppo di Civitavecchia e nel Collettivo femminista comunista di Civitavecchia. Anche il mondo cattolico diede vita alla sezione locale del Centro Italiano Femminile. Insieme lottarono per ottenere l’apertura in città del consultorio familiare con azioni anche eclatanti che portarono addirittura alcune di esse in carcere.
Neanche le dure lotte che cento anni dopo videro le donne combattere per i loro diritti, hanno cambiato la situazione nel nostro Paese in cui la discriminazione di genere continua ad esistere ed è oggetto in questi anni di accesa polemica culturale e politica.

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Civitavecchia
00053

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