Storie civitavecchiesi di Enrico Ciancarini

Storie civitavecchiesi di Enrico Ciancarini Storie civitavecchiesi narrate da Enrico Ciancarini

22/10/2023

L’Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini.

A Civitavecchia il paradiso degli odori marini. Il Ghiottone errante e la Trattoria del Gobbo.

“L’artista veramente chi è? Il cuoco che prepara le vivande o il buongustaio che le assapora e le giudica? Anche questa è una faccia della sfaccettatissima disputa tra il poeta e il critico: e gusto significa tanto la facoltà di discernere i sapori quanto la facoltà di distinguere il bello dal brutto”.
Sono le prime righe dell’articolo Mangiare e bere all’italiana pubblicato sulla terza pagina del Corriere della Sera del 13 ottobre 1935. Lo firma Ugo Ojetti, giornalista di punta del giornale milanese, che in quell’articolo recensisce Il ghiottone errante scritto da Paolo Monelli ed illustrato da Giuseppe Novello. Il volume edito nel 1935 per i tipi della Treves di Milano, narra il primo viaggio enogastronomico in Italia. È la Pen*sola degli anni Trenta del secolo scorso, più agricola che industriale, non ancora assoggettata ai grandi flussi turistici dei nostri tempi.
Quattro anni prima, il Touring Club aveva pubblicato la Guida gastronomica d’Italia. Ma è sempre Ojetti, che l’aveva suggerita al sodalizio milanese, a lamentarsi che il volume non forniva ai suoi lettori “l’indirizzo né di una trattoria né d’un dolciere né d’un vinaio né d’un fruttivendolo né d’un salumaio, così che da quella lista perfetta non si riesce a trarre un boccone: tutti sospiri”!
Nel Ghiottone errante l’autore “gl’indirizzi, presso a poco, ce li mette, e alla fine del libro ci porge un indice dei luoghi, delle osterie, delle trattorie, degli osti e dei ghiottoni notabili”. Fra questi luoghi compare anche Civitavecchia e la sua zuppa di pesce a cui sono dedicate due pagine e un bel disegno di Novello.
Lo stesso Ugo Ojetti, almeno in età giovanile, aveva frequentato Civitavecchia. Il padre, infatti, era l’architetto Raffaello, amico e stretto collaboratore del principe e deputato Baldassarre Odescalchi. Si deve all’Ojetti padre “il progetto di lottizzazione di Santa Marinella, mirante a realizzare ville per l’aristocrazia e l’alta borghesia” romane (Francesco Franco nella voce a lui dedicata nel Dizionario biografico degli Italiani, volume 79, 2013). Aggiungiamo che anche Borgo Odescalchi a Civitavecchia e soprattutto il villino del principe portano la sua firma. Raffaello Ojetti scrisse la prima biografia di Luigi Calamatta pubblicata nel 1874, a cinque anni dalla morte dell’incisore.
La sua Villa dei Principi, residenza degli Odescalchi nella nostra città (Baldassarre vi morì il 5 settembre 1909), sarebbe poi diventata uno dei templi dove si gustava la zuppa di pesce civitavecchiese in cui si celebrava la meravigliosa pietanza con l’antica ricetta della Moretta, una delle massime sacerdotesse officianti il culto della cucina civitavecchiese.
Ugo Ojetti nella sua recensione ricorda, fra le località visitate ed apprezzate da Paolo Monelli, Civitavecchia e il suo “brodetto di pesce” (SIC!) ribadendo il pesante errore di denominazione scritto nel libro. Paolo Monelli deve però essere perdonato per alti meriti letterari. Infatti, nella pagina dedicata alla Trattoria del Gobbo e alla sua zuppa/brodetto, la sua prosa si eleva a livelli talmente celestiali, che, a parer mio, che da oltre un anno mi dedico alla ricerca storica e letteraria su questo gustoso argomento, innalza il più suggestivo e succulento elogio alla nostra specialità:
“Qualche volta gli amici che cerchiamo qua e là come guide per taverne e cantine, pur scelti con cura, sgarrano, danno nell’umor poetico, vogliono che si perda il tempo in questa chiesa, davanti a questo palagio; ma noi duri; ed all’amico che a Civitavecchia ci ronzava nelle orecchie con Stendhal e insisteva a mostrarci quelle due finestre altissime perché lì Stendhal abitò, e da quell’aereo balcone speculava il porto ed il mare, noi chiedevamo solo se per scienza sua giunge a quella bastionata dimora l’olezzo della trattoria che ci sta sotto, ed il profumo della salsa alla marinaia o del brodetto di pesce che ci si mangia; che assommò per me tutti i sentori marini fiutati in quindici anni dal mar d’Africa al mare Artico, tutti i fiati di stive, cambuse, basse prue, riposte rie, tutti gli aromi degli scogli lavati dalla marea e delle spiagge ingombre di rottami e di gabbiani morti, tutto il tanfo dei vicoli di cento porti d’Europa e d’America, e gli aliti dei commensali fortuiti per quelle taverne, marinai in disarmo di Glasgow e ragazze sfatte di Saint Johns di Terranova e algerini di Marsiglia e salernitani di Broccolino e norvegesi trampellanti in busca i mari e arabi violanti la legge del profeta. Tutti questi odori risentii nel brodetto di Civitavecchia, ma ripuliti, sublimati, esaltati, come avviene delle anime dei buoni che salgono purificate al cielo; insomma quel brodetto era, me ne accorsi troppo tardi, a stomaco ormai zeppo, il paradiso degli odori marini”.
Così Paolo Monelli pregustò il paradiso alla Trattoria del Gobbo.
La nostra zuppa di pesce dimostra ancora una volta di essere stata oggetto di culto da parte dei più noti e affamati buongustai italiani del Novecento. Si giustificano quindi i giudizi degli odierni critici gastronomici che hanno definito la zuppa di pesce civitavecchiese “archeologica” allacciandosi a quanto scritto dai loro predecessori. Giudizio che noi interpretiamo come un gradito complimento!

PS: da appassionato bibliofilo, per il mio compleanno mi sono regalato la prima edizione de Il ghiottone errante. Un libro godibilissimo e bellissimo ancora oggi (come provano le numerose ristampe) grazie alle 94 illustrazioni di Novello fra cui spicca quella dedicata alla Trattoria del Gobbo e a Stendhal, immaginario frequentatore del locale nel lontano primo Ottocento.

15/10/2023

L’Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini.

“Damnatio memoriae” per Ettore Ridolfi, scultore civitavecchiese.

Era sopravissuto alle decine di bombardamenti che avevano violentato Civitavecchia a partire da quel maledetto 14 maggio 1943. Un giorno del Quarantaquattro o forse dell’anno successivo, bene non si sa, un’ignota (?) mano anarchica o forse comunista piazzò dell’esplosivo e lo fece saltare in aria, frantumandolo. L’odio nei confronti della Casa Savoia era in quei drammatici giorni piuttosto diffuso, il re e i suoi familiari erano stati i complici del fascismo, a braccetto con il duce e i suoi gerarchi avevano condotto l’Italia alla rovina della Seconda guerra mondiale.
Civitavecchia in quei giorni, mesi, anni, straboccava di rovine, una in più non faceva differenza.
Parlo del monumento al re “gentiluomo”, quel Vittorio Emanuele II che, grazie a personaggi come Cavour e Garibaldi, aveva ingrandito il suo regno con campagne militari ed accordi diplomatici, trasformandolo finalmente in Regno d’Italia con capitale Roma, strappata nel 1870 ai preti.
Monumento che le cronache del tempo, fu inaugurato il 17 agosto 1890, definiscono “maestoso”. Sua Maestà, Umberto I figlio di Vittorio Emanuele II, si compiacque di nominare nell’Ordine della Corona d’Italia di Suo Motu-proprio con decreto del 13 ottobre a cavaliere Ettore Ridolfi, scultore. (Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia del 2 novembre 1890).
Lo scultore era civitavecchiese ma la sua Città non lo ricorda in nessun modo. Rimangono a sua memoria l’atto di battesimo, il contratto per la statua di Vittorio Emanuele II, l’atto di morte.
Ettore Ridolfi era nato a Civitavecchia il 31 ottobre 1856 da Camillo, originario di Narni e da donna Adelaide, figlia di Biagio Acquaroni, commerciante e notabile della città portuale. Fu battezzato il 4 novembre nella Chiesa del Ghetto. Padrino fu lo zio Giovanni Battista Acquaroni. L’ostetrica fu Maria Lucchini (grazie a don Augusto Baldini che ha svolto le ricerche nell’Archivio diocesano).
Di Ettore Ridolfi abbiamo una foto che è a corredo del saggio La fascinazione del mondo islamico nelle mascherate romane di fine Ottocento: le fotografie del Fondo Le Lieure-Bettini al Museo di Roma di Cristina Delvecchio pubblicato nel Bollettino dei Musei comunali di Roma (2012, da internet). Nel saggio si parla del carnevale romano del 1881 quando “gli artisti del Circolo Artistico organizzarono una sfilata in maschera dedicata ad uno dei temi più diffusi della pittura orientalistica: la carovana”. Vi partecipò anche “Ettore Ridolfi (1856-1892), scultore esordiente a Roma nel 1883 presso il circolo artistico”. Come gli altri artisti suoi amici, indossava un “caftano e burnus completamente buttato all’indietro, porta innaturalmente un afedali di traverso dietro la schiena, e lo yatagan in vita”.
Nella nota la studiosa precisa: “Di Ridolfi si sa solo che scolpì il busto di Pietro Cavallini (1888) per la salita del Pincio e una statua di Vittorio Emanuele II per Civitavecchia (1880, data sbagliata perché era il 1890)”. Presidente del circolo Artistico internazionale era il principe Baldassarre Odescalchi, deputato eletto nel collegio di Civitavecchia e frequentatore assiduo della città.
Vincenzo Vicario nel volume Gli scultori italiani dal Neoclassicismo al Liberty (1994, p. 882) rileva che “Ettore Ridolfi eseguì anche busti, ritratti e lavori diversi per i Camposanti di Roma, di Civitavecchia e di vicine località. Fu scultore molto apprezzato per l’accuratezza dei suoi lavori in cui cercò di mantenersi aderente al vero”. Fu giudicato uno degli allievi migliori del piemontese Giulio Monteverde, uno dei maggiori scultori dell’epoca.
Nel 1878 moriva Vittorio Emanuele II re e padre della Patria e nel 1882 si spegneva Giuseppe Garibaldi, eroe dei Due Mondi. L’amministrazione municipale di Civitavecchia, da poco più di un decennio italiana, decise nel 1883 di onorare i due protagonisti del Risorgimento italiano con delle statue. Presa la decisione, scoppiarono le polemiche, artistiche ed economiche. Furono stanziate lire 20.000 per i due monumenti, di cui 12.000 per quello reale. Su un giornale dell’epoca scrivevano “onorare chi ha titolo alla benemerenza della patria, niente di meglio dico io; ma quando si potesse conciliare che questa’onoranza invece che racchiusa in un blocco di marmo si esplicasse a beneficio di chi ha bisogno di case, per esempio, d’istruzione, di lavoro, di pane, non trovereste meglio e più degnamente ricordata la figura di un gran Re e di un gran Generale?” (Fiorello, 15 aprile 1883).
Alla fine il contratto o meglio la scrittura privata fra il Comune di Civitavecchia e lo scultore Ettore Ridolfi fu firmata il 28 giugno 1886. L’abbiamo rintracciata recentemente sul mercato antiquario.
L’articolo 2. imponeva che “tale monumento sarà dal Ridolfi eseguito a figura intiera, conforme a quella già modellata da Lui in creta, e che sino dal 25 luglio 1885 l’onorevole Professore Ettore Ferrari – come da sua dichiarazione in atti – ha trovato compiuta, pronta per gettarsi in gesso e meritevole di tradursi in marmo”. La figura del re non doveva essere minore ai due metri d’altezza.
L’artista nel contratto riuscì ad assicurarsi un aumento del prezzo, portando il costo della statua a lire quindicimila, da pagare in tre rate. L’anticipo pattuito fu di lire 2.500.
La statua doveva essere consegnata entro il 31 dicembre 1886, a carico di Ridolfi era fissata una penale di lire 10 per ogni giorno di ritardo. Il monumento fu invece inaugurato il 17 agosto 1890.
L’Illustrazione italiana dedicò un lungo articolo all’inaugurazione della statua dedicata al re, installata nell’omonima piazza: “il monumento misura metri 6,05 d’altezza e 3,01 di larghezza. La base è di granito di Baveno greggio, sopra la quale con caratteri in bronzo è la scritta
AL PADRE DELLA PATRIA / VITTORIO EMANUELE II / PRIMO RE D’ITALIA / CIVITAVECCHIA 17 AGOSTO 1890.
I discorsi ufficiali furono tenuti dal sindaco Falleroni e dal deputato Tittoni: “la giornata terminò con una illuminazione fantastica della Piazza Vittorio Emanuele, concerti e fuochi d’artificio”.
Trascorsero solo due anni, quando nel registro delle morti avvenute nel 1892 del Comune di Civitavecchia venne riportata la notizia proveniente da Roma del decesso del giovane scultore avvenuta il 13 ottobre all’Ospedale di Santo Spirito. Doveva ancora compiere trentasei anni. Nel certificato si precisava che Ettore Ridolfi era uno scultore, di stato celibe, domiciliato a Civitavecchia, e che i suoi genitori erano entrambi morti.
La rivista Natura ed arte pubblicò un necrologio in occasione della sua morte rilevando che “un giovane scultore, che era una delle speranze dell’arte italiana, il cav. Ettore Ridolfi si è spento a Roma in età di soli 31 anni (errore). Il Ridolfi, che aveva fantasia fervida ed ingegno vivace, come lo provano le sue molte e pregevoli opere, fu il vincitore del concorso bandito pel monumento a Vittorio Emanuele a Civitavecchia, e dimostrò quale e quanto fosse la sua valentia artistica eseguendolo magistralmente”.
Ettore Ridolfi è sepolto nel Cimitero monumentale del Verano a Roma. Forse nel cimitero capitolino e nel nostro Cimitero si potrebbero trovare tombe e monumenti funebri da lui realizzati ma è necessario che le autorità competenti, il Comune e la Sovrintendenza, si facciano promotori di un censimento storico ed artistico di quanto realizzato e conservato nel cimitero da lui e da altri artisti locali e forestieri. Sarebbe un prezioso arricchimento del nostro patrimonio storico ed artistico.
Altro impegno da assumersi sarebbe quello di recuperare il Famedio, oggi tristemente abbandonato e pericolante, in cui in rispetto a quanto deliberato dai nostri antenati nel XIX secolo, siano ricordati i personaggi più illustri nati e operanti nella nostra città. Sarebbe un gesto di grande civiltà.
Di Ettore Ridolfi rimane ben poco, doveroso ricordarlo nelle pagine del nostro Almanacco.

08/10/2023

L’Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini.

Esposti. L’infanzia abbandonata nella Civitavecchia postunitaria.

“Il sottoscritto Direttore dell’Ospizio così detto l’Ospedale Comunale per le povere donne dichiara che alle ore sette pomeridiane del giorno dodici del corrente mese di Novembre fu raccolto in questo Ospizio, un bambino di sesso maschile nato il giorno stesso, il quale era involto in una pezza, una salvietta lacera, due cuffiette, un corpettino in buono stato, una camicia marcata F, mezzo fazzoletto G.R., una fascia nuova A.T., una pezza, una salvietta lacera, due cuffiette, un corpettino in buono stato, una camicia marcata F, mezzo fazzoletto G.R., una fascia nuova A.T., al collo mezza medaglia di ottone, con da una parte il Carmine e dall’altra il Rosario.
Al detto neonato, venne dato il nome di Gregorio, ed il cognome di Fidi e fu iscritto al numero d’ordine 412 del Registro Esposti in data oggi. Civitavecchia 17 novembre 1877.
Il Direttore Biagio Castagnola.
Il bambino suddetto viene mandato all’Ospizio di Santa Francesca Romana in Viterbo, al Direttore del quale si mandano pure le vesti ed il contrassegno ritrovate presso il bambino stesso e che sono qui sopra descritte, non che copia del presente atto”.
Non è la pagina di un feuilleton ottocentesco né una pagina tratta da un romanzo di Emile Zola. È una pagina tratta dal Registro delle nascite del 1877 del Comune di Civitavecchia. A redigere l’atto è il Cavalier Luigi Guglielmotti, assessore delegato dal Sindaco facente funzioni, ufficiale dello Stato civile del Comune di Civitavecchia. Oggi i registri dell’anagrafe civitavecchiese risalenti a più di cento anni fa, dal 1871, sono consultabili facilmente su internet Portale Antenati del Ministero della Cultura, Direzione Generale Archivi.
Nel bel saggio L’infanzia abbandonata nel Viterbese (sec. XVIII-XX) di Alessandra Langellotti e Carlo Travaglini (pubblicazione dell’Ecole Francaise di Roma nel 1991, consultata su internet) una tabella, la 5, evidenzia la provenienza dei bambini affidati al brefotrofio di Viterbo, l’Ospizio di Santa Francesca Romana citato nell’atto di nascita, in otto quinquenni dal Settecento ai primi anni del Novecento. L’ospizio fu fondato il 9 maggio 1738 per la ca**tà di papa Clemente XII e destinato a ricovero degli “esposti illegittimi” delle diocesi di Viterbo e Toscanella (di cui faceva parte allora Civitavecchia), Corneto e Montefiascone, Civita Castellana, Orte, Sutri, Nepi.
Abbiamo preso in considerazione il quinquennio 1877-1882, il primo post unitario, che vede affidare all’orfanotrofio viterbese 1264 bambini, di cui la maggior parte provenienti dal distretto di Viterbo (570 orfani pari al 45,1% del totale). Al secondo posto in questa triste classifica si piazza il distretto di Civitavecchia con 163 bambini pari al 12,9% del totale dei bambini abbandonati ed inviati all’Ospizio di Viterbo.
Fra quei bambini provenienti dalla città portuale c’era Gregorio Fidi, nome e cognome decisi dal direttore Biagio Castagnola o da qualche addetto dell’ospedale delle povere donne. Nel registro del 1876 gli esposti ricevono un cognome a sfondo floreale: Gelsomini, Garofolini, Cameli, Dali, Ortenzi, Oleandri, Fiorini, Rosini, Amorini, Giacinti, Violetti.
Non è chiaro se il neonato veniva alla luce in quelle camerate o era abbandonato di fronte all’edificio che sorgeva al Ghetto. La ruota degli esposti a Civitavecchia era stata tolta nel 1871 con l’arrivo della burocrazia sabauda che prese il posto di quella pontificia.
Sfogliando i registri dello Stato civile del Comune di Civitavecchia per quegli anni troviamo decine di atti che annotano la nascita di questi sfortunati bambini subito abbandonati dai genitori. Erano censiti nell’anagrafe civitavecchiese nel Registro degli Esposti ma subito trasferiti a Viterbo e, leggendo le scarse annotazioni di matrimoni o morti, non ritornarono quasi mai in riva al Tirreno. Gregorio, il nostro “esposto”, si sposò il 28 giugno 1903 a Civitella d’Agliano, località del Viterbese.
Ritorniamo al suo atto di nascita redatto dal cavaliere Guglielmotti e rileviamo la precisione con cui furono indicate le povere cose trovate addosso al bimbo. A Viterbo insieme all’infante “si mandano pure le vesti ed il contrassegno ritrovate presso il bambino stesso”. Micaela Norbiato, autrice del saggio L’Ospizio di S. Francesca Romana: l’infanzia abbandonata a Viterbo tra i secoli XVII e XIX (apparso su Biblioteca e società, volume ###I, n. 1-2 giugno 1997, da internet) rileva che il bambino appena arrivato nell’Ospizio veniva registrato nel Libro segreto: “in questo registro non veniva annotato solo il nome degli esposti accolti in ospizio ma vi era riportato minuziosamente tutto ciò che quei bambini avevano con sé. Si tratta di vestiti, di biglietti che i genitori, o chi per loro, scrivevano e appuntavano sulle fasce, di oggetti, di immagini sacre e di altri segni di riconoscimento che venivano lasciati con gli esposti”.
Gregorio indossava “una pezza, una salvietta lacera, due cuffiette, un corpettino in buono stato, una camicia marcata F, mezzo fazzoletto G.R., una fascia nuova A.T.” Iniziali che forse non avevano significato o forse potevano rivelare chi fossero i genitori. L’elemento che potrebbe in seguito portare al suo riconoscimento è quello che Gregorio porta al collo “mezza medaglia di ottone, con da una parte il Carmine e dall’altra il Rosario”. L’altra mezza medaglia forse rimase in mano alla madre che sperava un giorno di ritornare dal figlio e farsi riconoscere attraverso quell’oggetto. Mere speculazioni, a fianco degli atti di nascita degli esposti non ho trovato alcun atto di riconoscimento.
I bambini abbandonati dalle loro famiglie dovevano essere nutriti da balie a pagamento, vestiti, istruiti ed avviati all’inserimento nella società attraverso l’adozione, un lavoro o un matrimonio. Per le orfane era prevista una dote e un corredo.
Il Comune di Civitavecchia era impegnato nel sostentamento di questi bambini inviati a Viterbo. Ne abbiamo notizia nel XIX paragrafo del Resoconto morale dell’Amministrazione Comunale di Civitavecchia – Sessione di Autunno 1872 stampato a Roma dalla Tipografia Fratelli Pallotta, a firma del primo sindaco dopo il XVI settembre, Pietro Guglielmotti, intitolato Trasporto e Mantenimento degli Esposti:
“Non essendovi in questa Città alcun’Ospizio di trovatelli, il Municipio ha dovuto provvedere, come si pratticava per lo passato, al trasporto ed al mantenimento degli esposti nell’Ospizio di Santa Francesca Romana in Viterbo, corrispondendo per il primo di questi titoli per ogni esposto la somma di £ 17 e per il mantenimento in genere nell’Ospizio suddetto £ 2452 annue pattuite. Come ognun di voi avverte, la somma, che per l’Articolo mantenimento ha gravato il bilancio Comunale, non è indifferente; però essa è stata molto minore di quella, cui il Municipio sobbarcavasi sotto il cessato regime, e che non era inferiore a L. 3678, contribuendo attualmente la provincia per un terzo al pagamento dell’intiera corrisposta”.
Centinaia di bambini che lasciavano Civitavecchia “rifiutati” dai loro genitori, sostenuti mal volentieri dalla ca**tà pubblica. Una perdita per la madre e il padre ma anche per la Città che non poté avvalersi di loro e alla fine li ha dimenticati, conservando come unica traccia le annotazioni su un polveroso registro anagrafico, oggi riscoperto grazie al web.

01/10/2023

L’Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini.

Filippo Matteini, scultore civitavecchiese.

Via Matteini è la via dove ho abitato con la famiglia appena nato e vi sono ritornato fresco sposo.
Sulla targa stradale non è specificato il nome, solo il cognome. Da ricercatore storico, già in gioventù, non ci ho messo molto a scoprire che Filippo era il suo nome e che meritò l’intitolazione per essere stato l’autore della statua di Giuseppe Garibaldi posta dal 1890 nell’omonimo viale.
Sulla Strenna dei Romanisti, edizione 2020, Alberto Crielesi, storico dell’arte e archivista, pubblica il saggio Lo scultore Filippo Matteini: da Civitavecchia a Roma, fino a Dublino. È l’unica ricerca sulla vita e sulle opere di questo artista civitavecchiese, semi dimenticato nella sua città natale.
Filippo Matteini nasce a Civitavecchia il 15 dicembre 1842. Genitori sono Giulio Cesare Nicola, di professione sarto, e Cleofe Di Giovanni. I Matteini erano originari di Tolfa.
L’adolescente Filippo “manifestando precoci tendenze artistiche” è inviato a Roma per studiare e formarsi come artista presso l’Ospizio apostolico di San Michele a Ripa grande, dove già un altro civitavecchiese si era formato decenni prima, diventando il più grande incisore d’Europa: Luigi Calamatta.
Su La Civiltà Cattolica del 1859 appare per la prima volta il suo nome. Il 29 settembre festa di san Michele arcangelo, patrono dell’ospizio, è inaugurata l’esposizione di belle arti. Fra gli altri lavori spiccano due statue in creta “un Sofocle ed un Antinoo di Filippo Matteini, giovinetto alunno che quest’anno stesso ha avuto l’onore di due premi nell’Accademia di S. Luca”. Anche negli anni seguenti Matteini prosegue a mettersi in luce e a vincere premi all’Accademia di San Luca e alla Congregazione pontificia dei Virtuosi del Pantheon (1862), importanti istituzioni artistiche romane.
Il giovane scultore accumulava esperienza e dimostrava sempre di più una spiccata bravura nello scolpire il corpo umano e soprattutto il volto del personaggio da raffigurare. Tale bravura raccolse un importante ed internazionale riconoscimento nel 1865 quando a Dublino fu organizzata l’Esposizione universale. Anche lo Stato pontificio vi partecipò e fra l’altro inviò una “statua colossale di marmo statuario rappresentante la Santità di Nostro Signore Papa Pio IX, in abiti pontificali, col triregno, nell’atto di definire il Dogma della Immacolata Concezione di Maria SSma. Lo Scultore, che ha scolpito questa statua, è il giovine Filippo Matteini alunno nel suddetto ospizio” (da Elenco generale degli oggetti spediti dagli esponenti pontifici all’Esposizione universale di Dublino pel 9 maggio 1865). I concittadini del Matteini poterono ammirare la colossale statua quando fu imbarcata su un vapore irlandese nello scalo cittadino.
La statua “sollevò l’ammirazione dei cattolici irlandesi, al punto di classificarla come l’opera più bella della mostra e tanto fu il loro entusiasmo che decisero di comprarla e destinarla alla chiesa di Clonliffe”. Oggi la scultura di Filippo Matteini è conservata al Clonliffe College di Dublino.
Nel 1869 Matteini realizzò ad Albano un monumento funebre per due fratelli morti in giovane età. L’anno dopo, l’ultimo del regno temporale della Chiesa, fu presente all’Esposizione di Arte cristiana con il prototipo in gesso della statua colossale di Pio IX.
Con la caduta del papa re, Filippo Matteini fu costretto a lasciare l’Ospizio di San Michele e a mettersi in proprio, aprendo uno studio in via Porta Pinciana 7. Nel 1872, all’esposizione della Società romana degli Amatori e Cultori delle Belle arti, Matteini espone un busto in gesso di re Vittorio Emanuele II. Fu autore anche di una statua del poeta e giornalista Gabriele d’Annunzio.
Trascorrono dieci anni, è del 1882 la sua partecipazione all’Esposizione di Belle Arti di Roma a cui partecipa con un busto di Leone XIII, il successore di Pio IX.
Il 2 giugno di quell’anno muore Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei Due Mondi, molto amato a Civitavecchia dove il generale aveva trascorso alcuni periodi di vacanza e cure termali.
Il Consiglio comunale della città decise di dedicargli una statua ma i consiglieri più fedeli alla monarchia sabauda chiesero di erigerne un’altra dedicata al Re gentiluomo, Vittorio Emanuele II. Era per Civitavecchia l’affermazione pubblica, dopo secoli di dominazione ecclesiastica, di appartenenza ad una nuova religione: quella laica dello Stato che s’impersonava nei due protagonisti del Risorgimento e dell’Unità d’Italia.
La scelta accese numerose polemiche in città: sul giornale Fiorello dell’11 marzo 1883 venne evidenziata una diatriba fra “monumento o busto” in cui si dava notizia che il Comune aveva fatto arrivare da Roma due professori che “godono in arte d’una certa reputazione” per fargli scegliere fra i bozzetti disegnati dai concittadini Filippo Matteini ed Ettore Ridolfi (a lui, caduto nell’oblio, dedicheremo il prossimo Almanacco). Il verdetto finale dei due professori fu salomonico: meglio dedicare un semplice busto all’Eroe così caro ai Civitavecchiesi ed archiviare il progetto di una statua. L’articolista, in polemica con il Comune, affermava che il sogno di lui e della maggioranza dei cittadini era che a Garibaldi fosse eretto un monumento”bello, pulito, gigantesco, nel mezzo della città”.
Alla fine prevalse questa idea e sul periodico Arte e Storia del 21 ottobre 1883 fu riassunta la querelle civitavecchiese con queste parole: “La città innalzerà un monumento a Vittorio Emanuele ed uno a Garibaldi. Fu aperto tempo addietro un concorso fra artisti di Civitavecchia, e per il monumento a Garibaldi fu scelto il bozzetto dello scultore Filippo Matteini. Per il monumento a Vittorio Emanuele non è stata ancora fatta la scelta del bozzetto”. A Matteini sono promesse ottomila lire per la realizzazione della statua.
Occorreranno sette anni affinchè il 19 giugno 1890 fosse inaugurato il monumento a Giuseppe Garibaldi. Riportiamo uno stralcio dalla cronaca che pubblicò La Tribuna illustrata del 6 luglio:
“Il monumento eretto dai Civitavecchiesi a Garibaldi sorge a metà del viale omonimo … la statua del Nizzardo, la persona ravvolta nel poncho leggendario, la mano sull’elsa della spada, il piede posato sui rottami d’un cannone. La sua nobile fisionomia respira la calma e la forza.
L’applauso che al calar delle tele che ricoprivano il monumento s’elevò fragoroso, unanime dalla folla raccolta sul piazzale Traiano fu dunque insieme una manifestazione patriottica, ed un verdetto artistico. Lo scultore Matteini, figlio di Civitavecchia, può dire d’aver raggiunta colla sua modesta statua una meta a cui mireranno indarno molti autori di progetti sesquipedali, nei quali la figura dell’eroe italiano è fantasticamente accoppiata alle creazioni più bizzarre, va perduta fra i mille accessori. Il leone che sta ai piedi del basamento è perfettissimo sia per concetto, sia per modellatura, ma le proporzioni sono serbate in guisa da evitare il pericolo che l’uomo ne sia divorato. Il basamento stesso, tanto semplice che è quasi n**o, ha una sveltezza ed un’eleganza di linee che salva tutto”. (ringrazio Pietro Mancini per avermelo messo a disposizione).
Pochi giorni dopo, il 17 luglio, lo scultore era insignito del titolo di Cavaliere della Corona d’Italia.
Il 13 gennaio 1892, a Roma, Filippo Matteini si spegneva a soli cinquant’anni. Lasciava la moglie, Rosa Alegiani, e tre figli: Elisa (1873), Elvira (1876) e Costantino (1881).
La sua memoria a Civitavecchia rimane legata alla sola targa stradale in cui non è riportato neanche il nome. Bene scrive Alberto Crielesi, suo unico biografo, quando afferma che “il suo nome è pressoché assente in qualunque parte” perché Filippo Matteini “fa parte di quella schiera di scultori ottocenteschi di area romana che, dopo la Breccia di Porta Pia, per la rarefazione delle commissioni ecclesiastiche ed il sopraggiungere di artisti di altra provenienza geografica e culturale, fu completamente dimenticata o relegata nella penombra della storia dell’arte, in attesa di essere riscoperta e rivalutata”.
Questo articolo ha la pretesa di ricordare Filippo Matteini ai suoi concittadini, a centotrenta anni dalla morte, con la speranza che quando essi passeggiano davanti al Generale, un pensiero corra a lui, che ha donato un così bel monumento, rara testimonianza della Civitavecchia che fu.

24/09/2023

L’Almanacco civitavecchiese di Enrico Ciancarini.

Le regine della zuppa di pesce civitavecchiese. Straordinarie cuoche e abili imprenditrici.

Dedicato alle mamme, nonne e mogli civitavecchiesi che per secoli hanno cucinato ai loro figli, nipoti e mariti la più squisita zuppa di pesce.

Le pagine che seguono avrei voluto inserirle nel mio libro La Marchesa e le zitelle. Donne nella Storia di Civitavecchia. Purtroppo, ho incontrato queste donne subito dopo la pubblicazione del volume nella ricerca dedicata alla storia e alla tradizione della zuppa di pesce. Protagoniste sono le donne che per decenni hanno cucinato nelle loro trattorie lo squisito piatto simbolo gastronomico per anni di Civitavecchia. Furono imprenditrici di sé stesse e hanno fatto conoscere Civitavecchia in Italia e all’estero grazie alla loro bravura nel cucinare e nella gestione delle loro aziende familiari, regine della tavola e protagoniste silenziose della storia sociale ed economica della nostra città.
Trattoria del Gobbo
Nel 1857 Candeloro Gargiulli, “caporale” della prima squadra dei facchini del porto, apriva al pubblico “una modesta osteria in un locale sito sotto le fondamenta di Campo Orsino, con accesso dalla cortina merlata di Clemente VIII (per la verità era Urbano VIII), fra l’antica Scaletta e la monumentale fontana del Mascherone. Il locale […] assunse il nome di “Osteria del Gobbo” perché in essa padron Candeloro aveva assunto un garzoncello gobbo”.
La storia della Trattoria del Gobbo è pubblicata su Immagini di Civitavecchia (1993) edito dall’Associazione Archeologica Centumcellae ed è firmato da “Lario” pseudonimo di Vittorio Lazzari.
Con l’inaugurazione della ferrovia Roma – Civitavecchia agli umili lavoratori del popolo “si aggiunsero numerosi villeggianti romani”. Erano attratti dalla freschezza del pesce.
“Morto padron Candeloro, la gestione del fortunato locale venne assunta dalla moglie, Caterina Paparcuri di Tolfa, donna energica ed attiva, con la quale collaborarono numerosi figli, tra cui Erminio …
Per tredici anni, dal 1900 al 1913, Erminio Gargiulli, subentrato alla madre, gestì il locale coadiuvato dalla giovane moglie Andreina Urbani. Questa, rimasta vedova con quattro figli a carico di età tra i due e gli undici anni, incrementò notevolmente il lavoro della Trattoria del Gobbo grazie soprattutto alla sua inimitabile zuppa di pesce, giudicata dai buongustai superiore a quella di tutti gli altri centri marittimi italiani ed esteri. Sembra che il segreto della cucina della Sora Lisa, oltre alla freschezza ed alla varietà del pesce, fosse rappresentato da un particolare accorgimento nella preparazione del brodo con pesce di piccola taglia, noto a Civitavecchia col nome di ‘mazzumuglia’ o ‘un soldo al piatto’, lo stesso cui le nostre nonne erano use preparare squisite zuppette di cui oggi, fatta eccezione forse per qualche vecchia famiglia di pescatori, si è perduto il ricordo”.
Trattoria Da Mimma
Sul Corriere della Sera del 15 novembre 1952, Raffaele Calzini firma un lungo articolo dal lungo titolo: “La famosa “zuppa del gobbo” chiama romani a Civitavecchia. Cinque osterie si contendono il vanto di possedere la leggendaria ricetta che emula i più squisiti modelli del “cacciucco”, della “bouillabaisse” e del “brodetto”.
Della Trattoria del Gobbo l’articolo non parla ma parla della “zuppa del Gobbo”: Civitavecchia “è meta di pellegrinaggi gastronomici perché è noto che la zuppa di pesce cucinata nelle sue trattorie è tra le migliori d’Italia e certo la più gustosa che si possa trovare poco lontano da Roma. Pare che l’iniziatore di questa fama fosse un non meglio definito pescatore-cuoco, abitante vicino al porto, che nella tradizione popolare passa per il “gobbo”; e a lui e alla sua ricetta fanno capo, almeno apparentemente, quanti a Civitavecchia si vantano di sapere cucinare la più prelibata zuppa di pesce che dai tempi del goloso Domiziano sia comparsa sulla tavola di un quirite.
Che questo “gobbo” fosse poi ispirato dal diavolo per indurre al peccato della ghiottoneria nei giorni di magro anche i più osservanti cristiani e i più severi prelati è tema che meriterebbe una illustrazione particolare. Si racconta di certi cardinali che, recandosi per il Conclave a Roma, fecero tappa dal “gobbo” prima di chiudersi in Vaticano a eleggere il nuovo Papa; […]
Nessuna delle trattorie di Civitavecchia porta nell’insegna un blasone così illustre: la scelta del ghiottone che si arresta a Civitavecchia o vi si reca appositamente da Roma, da Grosseto, da Viterbo, oscilla per lo più tra cinque osterie famose: “L’Ideale” fuori città sulla via Aurelia, “Il Tarquiniese”, “Esterina”, “La Moretta”, così denominata dalla proprietaria, una piccola pepata donnina bruna che mobilita intorno alla zuppa di pesce tutti i figlioli maschi e femmine, e la “Sora Mimma”.
Questa ultima ostessa è certo una delle più efficienti e importanti glorie gastronomiche di Civitavecchia e già si impone con la figura monumentale e i cento chili di peso che muove intorno ai fornelli e rosola alle vampe dello spiedo con la disinvoltura di una regina. Al secolo si chiama Mimma Unali e passò l’infanzia e la giovinezza a scaricar pesci dalle barche rientranti, e portarli sul capo nelle ceste per le vie della città.
Nell’eco di qualche portone, di qualche portico, di qualche feritoia risparmiati dai bombardamenti rimane la voce dell’aitante pesciaiola ridente e dritta come quella dipinta da Hogarth; ma le nuove generazioni l’hanno sempre vista ai fornelli o ai tavoli della sua trattoria e in quell’appellativo di “Sora Mimma” è confidenzialmente sottinteso un senso di rispetto e d’omaggio a una celebrità gastronomica locale che fu anche consacrata anni sono da un premio. Valeva la pena perciò di riuscire a trarre dal segreto della sua cassaforte mentale (le casseforti delle donne si scassinano sempre più facilmente di quelle degli uomini) la ricetta o il “Leitmotiv” della zuppa di pesce che ella proclama “alla romana”.
La Sora Mimma non ignora che esistono due scuole, una che nella cucinatura dà la preferenza al sapore dei pesci, e l’altra che condensa il sapore nel brodo in cui vengono cotti. È la differenza teorica che separa la scuola del “cacciucco” da quella della “bouillabaisse”: e poiché la scuola di Civitavecchia è più vicina a quella di Livorno si conserva ai diversi pesci tutto il loro variato sapore in modo che dal palato allo stomaco e da questo al cervello il buongustaio possa passare in rassegna, come nella profondità di una pesca subacquea, gli scorfani o i rospi, i gronchi o le aragoste, i gamberi reali o le triglie, gli sgombri o i palombi, e così via via secondo la varietà che dipende più dalla fortuna dei pescatori che dall’abilità dei cuochi.
Questo corteo è preceduto in casseruola dai polipi e dalle seppie che, una volta arrotolati, sono raggiunti da pomodori a pezzi. A parte vengon soffritti qualche spicchio d’aglio, un po’ di prezzemolo e un peperoncino rosso, e la mescolanza di tutti questi elementi viene riunita in una sola casseruola nella quale l’acqua viene aggiunta poco alla volta a freddo mentre, è bene notare, i dogmi di Marsiglia vogliono che l’acqua sia aggiunta calda. Per distinguere e caratterizzare la semplicità saporosa del suo intingolo la Sora Mimma non vi aggiunge vino come i livornesi né b***o come i marsigliesi”.
Trattoria La Moretta – Villa dei Principi
La mia famiglia era di casa a Villa dei Principi, qui a fianco di mia moglie Cristina ho accolto gli invitati al nostro matrimonio. Per mio padre Patrizio Villa dei Principi era la casa dove era nata il 20 luglio 1930 Elettra, la figlia di Guglielmo Marconi. E il 26 gennaio 1986 la riportò lì.
Nel precedente articolo abbiamo incontrato la Moretta “una piccola pepata donnina bruna che mobilita intorno alla zuppa di pesce tutti i figlioli maschi e femmine”. Il suo vero nome era Annunziata Guglielmi, nata nel 1905, coniugata con il portuale Alfredo Gasparri con cui ebbe cinque figli tutti nati entro il 1928 (ringrazio Bruno Pantaleone, suo nipote e caro amico, per le notizie e le foto).
La ricordiamo con un articolo apparso su Il Tempo di Roma nel 1985 firmato da Paolo Brunori:
“Per anni, finita la guerra e con l’auto che piano piano entrava in tutte le famiglie, andare dalla Moretta era stato per i romani, e non solo per loro, sinonimo di togliersi lo sfizio del pesce fresco e l’occasione di una bella gita al mare. L’autostrada era ancora lontana e l’Aurelia non era intasata più di tanto: cosa di meglio per passare una bella domenica e, magari riportare a casa una cassetta di sardine vive? Ma gli anni continuarono ad inseguirsi sempre più in fretta, le auto a crescere, le strade ad ingolfarsi e lentamente anche il nome benemerito, inteso col significato di un tempo, pian piano scomparve in tanto bailamme, restando nel cuore dei più e vicino solo a pochi intimi. Il rimpianto di un ricordo che fu.
Finchè qualche giorno fa, una concomitanza di ritardi, non condusse un gruppo di ghiottoni di Borgo Odescalchi 11/A, proprio a Civitavecchia, in una splendida villetta a un passo dal mare – la Villa dei Principi – voluta da Baldassarre Odescalchi, dice un depliant, sulla fine del secolo scorso ‘nella pace di un angolo quasi remoto, che riceve l’ultimo bacio del sole morente’. Un attimo, due saluti e il miracolo inatteso: la Moretta non era più una foto ingiallita dal tempo, ma una presenza concreta, viva e moderna. Realtà e non ricordo: provare per credere, cominciando dalla proverbiale zuppa di pesce e dall’altrettanto famosa zuppa di crostacei che non ha eguali sulla costa maremmana, ma non dimenticando gli splendidi antipasti di mare accompagnati da una tavolozza di salse diverse tra le quali è difficile scegliere la migliore. Senza soffermarsi sulla freschezza, la fragranza e il gusto tutto particolare del pesce che la Moretta sa presentare e preparare con antica, superiore esperienza”.
Le operaie della “Fabbrica del baccalà”.
Negli anni Trenta del secolo scorso, Civitavecchia ospitava una flotta peschereccia oceanica che rendeva il suo porto il più importante d’Italia. Al ritorno di questi piropescherecci, il pesce pescato nell’Oceano Atlantico era lavorato dalla Società Italiana Pesce Oceanico Conservato SIPOC che aveva sede nella celeberrima “Fabbrica del Baccalà”, sita nella Darsena romana.
Fra i prodotti che uscivano da questa fabbrica c’era anche il “Cacciucco” o zuppa di pesce in scatola. Un articolo del Corriere della Sera del 28 giugno 1930 intitolato “Metamorfosi moderne. L’industria della pesca oceanica” illustra quali operazioni venissero effettuate nell’opificio civitavecchiese e il ruolo da protagoniste che avevano le operaie addette all’inscatolamento delle confezioni “contenenti il cacciucco, il super dentice, il dentice, il tonno e simili ghiottonerie”.
“La macchina del cacciucco
Nella darsena v’è un bacino di carenaggio ben attrezzato e, sulla calata, sorgono due moderni stabilimenti dell’industria peschereccia, che danno lavoro a un notevole numero di operai.
Nessuno pensi a semplici fabbricati, pieni di reti, di corbelli e di banchi. Si tratta d’impianti di una certa importanza, di un lavoro rapido ed esatto. Si assiste a una bella metamorfosi: da una parte entrano pesci; dall’altra escono scatole rotonde con tanto di etichetta litografata, piene di cacciucco o zuppa di pesce, che dir si voglia.
Non si sciupa un grammo del carico: anche quello che non può allietare la mensa viene utilizzato: con le spine si fa un alimento molto profittevole al bestiame; con le squame un fertilizzante. Parte dei due prodotti viene venduta nei mercati interni e parte assorbita dai mercati tedeschi.
Una grue porta il pesce dal vapore in un vasto locale, in cui si trova un banco di ferro, girevole, a due piani. Sul piano superiore si mette il pesce che sarà venduto fresco; sull’inferiore quello che sarà preparato in scatola. Il primo, naturalmente, dopo una breve sosta nella cella frigorifera, va a fare da mirabile natura morta – si tratta di grandi peci, da taglio, - nelle quotidiane esposizioni dei mercati e dei negozi; l’altro, trasportato nello stabilimento, diventa oggetto di molteplici operazioni.
Viene pesato, decapitato, sbuzzato, nettato, scottato, gli si tolgono le squame, lo si fa a pezzi, lo si pone in bacinelle di cottura di nichel puro. Quando è cotto a puntino comincia – la parola è assai br**ta, ma come fare? – l’inscatolazione, la quale vien fatta da operaie, che sono coadiuvate efficacemente da macchine, e che dimostrano in maniera brillante come la donna, anche quando è adorna di conserva di pomodoro e di squame di pesce, invece che di gioielli, sia sempre donna, cioè conservi intatta la facoltà di scoccare occhiate che con la navigazione, l’industria e il commercio non hanno nulla in comune”.

E allora buon appetito degustando un’ottima zuppa di pesce civitavecchiese cucinata dalle valide ed esperte chef che oggi vanta la nostra città, degne eredi della grande tradizione gastronomica civitavecchiese di cui abbiamo ricordato le principali protagoniste.

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Civitavecchia
00053

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