21/02/2021
6 IL FASCISMO DI CONFINE
Fascismo di confine (ideologia) «Fascismo di confine» è la definizione che il nuovo movimento (trasformatosi poi in partito) scelse fin dal 1919 per sottolineare la sua specifica identità in relazione alla realtà locale (il Friuli e soprattutto la Venezia Giulia) e nazionale. Si delineò molto velocemente l’immagine e il mito del confine come «barriera» invalicabile e, nello stesso tempo, come bastione da cui proiettarsi verso l’Europa Sud – Orientale, segnatamente verso il Regno dei serbi, croati e sloveni (SHS), appena sorto. A Trieste fu precoce, rispetto ad altre zone d’Italia, la nascita del fascio (3 aprile del 1919) e fu presto organizzata la sua violenta forza d’urto. Alle sue origini vi era un insieme disordinato di gruppi diversi e di idee non ben delineate: dalle urla rabbiose contro la «vittoria mutilata», al grido di vendetta per i troppi morti e le troppe sofferenze provocate dalla guerra, alle promesse di giustizia sociale e di rinnovamento politico contro le istituzioni rappresentative e associative della fragile democrazia liberale. Un forte nesso di aggregazione venne costituito da alcuni precisi elementi: il nemico esterno, gli «slavi» del Regno SHS; il nemico interno e cioè gli «slavi» presenti nell’area, contro cui la tradizione nazionalista si era ben allenata nel passato; l’evidente incapacità delle nuove autorità italiane (salvo rare e deboli eccezioni) di capire in quale mondo fossero state delegate a governare. Il movimento di ribellione sociale guidato dai sindacati e dal partito socialista si presentava, a sua volta, come il primo contendente dello scontro diretto e violento che si aprì nelle piazze e nei quartieri operai.
Fascismo di confine (squadrismo) A Trieste «le squadre volontarie di difesa cittadina» sorsero nel maggio del 1920, per raggiungere ben presto una forte potenzialità d’azione, sotto la guida di Francesco Giunta, destinato ad una importante carriera durante il ventennio fascista, ma giunto a Trieste nelle vesti di avvocato e soprattutto di ex ufficiale dell’esercito, all’interno di quegli uffici ITO (Uffici Informazioni Truppe Operanti) che ebbero un ruolo essenziale nell’orientare l’opinione delle autorità italiane sulla realtà sociale e politica dei territori appena occupati dopo il crollo dell’Impero austro ungarico. Nel marasma del primo dopoguerra, Francesco Giunta, emulo di D’Annunzio, organizzò le squadre per combattere quella che veniva definita «l’Antinazione» (sloveni, croati e socialisti). Si trattava di circa 156 soggetti molto attivi nella sola Trieste, tenendo conto che nel 1921 la Federazione fascista di Trieste contava 14.756 iscritti. Erano uomini – ragazzi, spesso sono legati tra loro da vincoli di parentela (cugini, fratelli, padri e figli), che proiettavano la loro aggressività dalle famiglie verso l’esterno, ma che altrettanto spesso provenivano dall’esperienza fiumana e dalla disperata fuga dalle loro terre d’origine (dal Centro e dal Sud Italia) in cerca di fortuna e di lavoro. In poco tempo l’idea della «squadra» si consolidò attraverso le sanguinose spedizioni verso le campagne abitate prevalentemente da sloveni e da croati o in altre zone della regione, mentre le autorità politiche e militari rifuggivano da azioni decise di contrasto. Il legame interno era poi esibito dalla divisa comune (la camicia nera), dal cameratismo audace che evocava il ricordo della guerra e da atteggiamenti e comportamenti che rifiutavano l’immagine dell’uomo disorientato e ferito, imponendo quella del «maschio» sano e invincibile. Il collante principale fu, tuttavia, la violenza, fonte di esaltazione e di complice ricatto. Il 13 luglio 1920, l’incendio del Narodni Dom, il più moderno e importante centro culturale delle organizzazioni slave della città, segnò il trionfo dello squadrismo fascista e del capo carismatico Francesco Giunta, che in quell’azione ripose l’essenza del fascismo di confine, mentre le autorità civili e militari rimanevano a guardare, senza opporre alcuna forma di contrasto. Nel disordine violento delle squadre, infatti, intravvedevano, la possibilità di ristabilire l’ordine che esse non erano capaci di imporre con i mezzi della tradizione liberale, mentre, al loro interno, non mancavano forme di complicità e di condivisione rispetto al nuovo soggetto politico. Nel disordine violento delle squadre, infatti, intravvedevano, la possibilità di ristabilire l’ordine che esse non erano capaci di imporre con i mezzi della tradizione liberale, mentre, al loro interno, non mancavano forme di complicità e di condivisione rispetto al nuovo soggetto politico.
Fascismo di confine (bonifica etnica) Una delle fonti principali d’ispirazione del fascismo di confine fu senz’altro rappresentata dal nazionalismo: il tema dell’antislavismo si annidava quindi nel cuore del nuovo movimento e poi del PNF, provocando una serie di provvedimenti legislativi tendenti ad escludere una parte importante della popolazione slovena e croata della regione dalla partecipazione alla vita pubblica. L’italianizzazione dei cognomi, la riscrittura della toponomastica, la subitanea p***ecuzione del clero «slavo», la chiusura delle scuole slovene e croate nonché di tutte le associazioni e partiti che a quel mondo si riferivano, rappresentavano tuttavia solo una parte (certo la più vistosa) di scelte di snazionalizzazione, che crearono divisioni profonde all’interno di una comunità che, nonostante gli attacchi del nazionalismo del primo Novecento, aveva trovato forme di mediazione significative: matrimoni misti, affari in comune, mescolanze culturali non erano affatto fenomeni rari.
Il fascismo di confine, anche attraverso provvedimenti di polizia molto pesanti (la vigilanza puntigliosa, le denunce, il confino, il deferimento presso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato), tentò di cancellare l’identità di coloro che venivano considerati, secondo una definizione ricorrente, «gli infedeli»: il regime fascista, non diversamente di quanto accade per il resto della popolazione italiana, chiedeva loro supina obbedienza. Nel caso degli sloveni e dei croati presenti nell’area era tuttavia incombente la minaccia di essere accusati di terrorismo, sostenuto dal nemico slavo al confine. La propaganda e il disprezzo verso la popolazione slovena e croata, considerata di civiltà inferiore, si univa spesso a forme di allettamento soprattutto sul piano dell’assistenza verso i più disagiati. Il totalitarismo fascista, puntando alla ridefinizione del corpo nazionale sotto le sue esclusive insegne, seguì, infatti, molte strade: l’adescamento (e la «conversione») «dei diversi» fu una di queste. Che l’operazione di «bonifica etnica» fosse riuscita non si può dire, poiché la popolazione, nelle chiese e nelle case, continuò in buona misura a preservare la propria identità, opponendo una resistenza tenace che spesso si trasformava in aperta opposizione antifascista. «Brutale e fiacca» è stata definita quella scelta di snazionalizzazione tanto esaltata dalla propaganda: un censimento riservato del 1939 per tutta la Venezia Giulia, impostato secondo i criteri della lingua d’uso, mostrò alle autorità competenti la solidità della presenza «allogena», ben poco scalfita, rispetto al 1921, nella sua consistenza numerica (circa 395.000 alloglotti presenti su una popolazione di un 1.000.000 unità), nonostante anche una forte emigrazione (molte decina di miglia di unità, stime più precise sono impossibili). Tuttavia, il gioco mortale innescato dal disprezzo e dall’odio che si colora di razzismo non avrà termine. A lungo, anche dopo la caduta del fascismo, sarà destinato a lacerare le terre di confine.