LAGER Italiani in Jugoslavia 1941/1943

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LAGER Italiani in Jugoslavia 1941/1943 Rubrica che vuole riproporre accadimenti e crimini che l'Italia monarchica e fascista ha compiuto ne
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Un nuovo contributo di uno storico contro le falsificazioni della storia e la propaganda neofascista mascherata di democ...
02/09/2021

Un nuovo contributo di uno storico contro le falsificazioni della storia e la propaganda neofascista mascherata di democraticismo fuori luogo.
https://www.nuovaresistenza.org/2021/09/intervista-ad-alessandro-barbero-le-foibe-furono-un-orrore-ma-ricordare-quei-morti-e-non-altri-e-una-scelta-solo-politica-il-giorno-del-ricordo-e-una-tappa-di-una-falsificazione-storica/?fbclid=IwAR3rH8cpRRXdtrs-Zmsifjj9Tb95Et_OnXTyt-MPQiL-lPQApV6qnaeCHDQ

Tweet Alessandro Barbero: “La querelle è dovuta al fatto non che siano finite le ideologie, ma che è finita la…

LA CURIOSA STORIOGRAFIA "ETNICA"È curioso come certa storiografia, con un tipico ragionamento di responsabilità "etnica"...
30/08/2021

LA CURIOSA STORIOGRAFIA "ETNICA"
È curioso come certa storiografia, con un tipico ragionamento di responsabilità "etnica" invece che politica, attribuisca tout court ai croati in quanto tali le stragi di serbi, zingari ed ebrei, dimenticando che i responsabili di quei massacri furono i membri di una formazione politica, gli Ustascia, allevati politicamente e militarmente da Mussolini, e che altri croati costituirono il nerbo dell'esercito di liberazione che contro ustascia, fascisti e nazisti combatté la più strenua resistenza a livello europeo.
Migliaia furono i croati che morirono nei campi di concentramento italiani, rastrellati nei loro villaggi dai reparti della II armata italiana del generale Roatta, durante i vari cicli operativi antipartigiani.

30/08/2021
Olga HandjalGIORNATA DI LOTTA ANTIFASCISTA IN CROAZIA:  22 giugno 1941Grazie ai comunisti e alla dirigenza di Josip Broz...
22/06/2021

Olga Handjal
GIORNATA DI LOTTA ANTIFASCISTA IN CROAZIA: 22 giugno 1941
Grazie ai comunisti e alla dirigenza di Josip Broz Tito, e a tutti i popoli e le nazionalità della Jugoslavia, oggi in Croazia si celebra la Giornata della lotta antifascista.
Grazie a tutti i serbi, sloveni, montenegrini, albanesi, russi, bielorussi, ucraini, croati e altri che hanno seminato le loro ossa in questa zona nella lotta contro gli occupanti e i loro servi ustascia, cetnici, guardie bianche e altri traditori e criminali che hanno servito il peggior male governava queste zone e veniva dalla Germania nazista e dall'Italia fascista. La giornata della lotta antifascista è anche un memoriale del vergognoso ruolo della Chiesa cattolica in Croazia, e del perfido sostegno del regime ustascia di cui godeva dalla chiesa quasi al completo nell'area del criminale fantoccio" stato" dell'NDH.
Tutti "dimenticano" di citare i comunisti e Josip Broz Tito nel giorno della lotta antifascista, ma per fortuna la storia non è interessata a questo. Questi sono fatti storici.
Questo è esattamente ciò che questi "democratici" di oggi vogliono che tutti insieme dimentichiamo, ma non passerà.
Buona Giornata di lotta antifascista.
Morte al fascismo, a quello in divisa nera come a quello in bei vestiti e mantelli.
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Zahvaljujući komunistima i vodstvu Josipa Broza Tita, te svih naroda i narodnosti Jugoslavije danas u Hrvatskoj slavimo Dan antifašističke borbe.
Hvala svim Srbima, Slovencima, Crnogorcima, Albancima, Rusima, Bjelorusima, Ukrajincima, Hrvatima i ostalima koji su posijali svoje kosti ovim prostorima u borbi protiv okupatora i njihovih slugu ustaša, četnika, belogardejaca i ostalih izdajnika i zločinaca koji su služili najgorem zlu koje je vladalo ovim prostorima a došlo je iz nacističke Njemačke i fašističke Italije. Dan antifašističke borbe je i spomen na sramotnu ulogu katoličke crkve u Hrvatskoj, te na izdajničku potporu ustaškom režimu koji je on uživao od gotovo kompletne crkve na području marionetske zločinačke "države" NDH.
Svi "zaborave" spomenuti komuniste i Josipa Broza Tita na Dan antifašističke borbe, ali sva sreća da povijest to ne zanima. To su povijesne činjenice.
Upravo to žele ovi današnji "demokrati" da mi svi skupa zaboravimo, ali to neće proći.
Sretan nam Dan antifašističke borbe.
Smrt fašizmu, onom u crnim uniformama kao i onom u finim odijelima i mantijama.

Da Cannibali e ReOLIO DI RICINO ED OLIO DI MOTORE A FORZA GIÙ IN GOLA: UN RICORDO DI LOJZE BRATUZ, VITTIMA SLOVENA DEL F...
23/04/2021

Da Cannibali e Re
OLIO DI RICINO ED OLIO DI MOTORE A FORZA GIÙ IN GOLA: UN RICORDO DI LOJZE BRATUZ, VITTIMA SLOVENA DEL FASCISMO, LA CUI COLPA FU SOLO IL VOLER CANTARE NELLA SUA LINGUA
"Canta adesso, maestro!"
Gli aprirono a forza la bocca, e giù di olio. L'olio di ricino da solo non era abbastanza per Lojze. Gli squadristi decisero allora di mischiarlo con olio di motore. Scendeva nella gola, e bruciava, bruciava tantissimo.
Pensò probabilmente alla musica per sopportare il bruciore. La musica che insegnava ai bambini della sua città: Gorica, diventata Gorizia dopo il 1918. Ma Lojze Bratuz era nato sloveno, e sloveno sarebbe rimasto. E voleva che le migliaia di sloveni friuliani preservassero l'utilizzo della propria lingua dopo il passaggio dal dissolto Impero Austro-Ungarico al Regno d'Italia. Così insegnò i canti religiosi nelle scuole, nei seminari e nelle chiese esclusivamente in sloveno. Mischiava il canto religioso al canto popolare, una scelta non solo "stilistica" ma anche ideologica, dato che Lojze fece di tutto per coinvolgere nei suoi cori i bambini dei ceti popolari.
Poi arrivò il fascismo. Le lingue delle minoranze non erano più tollerate. Non bastava imporre l'italiano: andava eradicata ogni tradizione culturale e linguistica. E così il primo arresto per Lojze - che nel frattempo aveva dovuto cambiare nome in Luigi Bertossi - arrivò nel 1929. Attività anti-italiane, dissero. Non cambiò, tuttavia, la stima che la gente comune e anche il clero aveva nei confronti del maestro, all'epoca ventottenne. Continuò allora a girare il Friuli per trovare le voci più talentuose con il benestare del vescovo di Gorizia, Francesco Borgia Sedej. Lo fece fino al dicembre 1935.
Era il 27 dicembre, appunto, quando, appena uscito dalla messa, Lojze venne aggredito da un gruppo di fascisti. Prima arrivarono le botte, poi la miscela di olio di ricino e olio di motore. Quanto bruciava, mentre venne trasportato in ospedale. Continuò a bruciare per oltre un mese. Agli inizi di febbraio un gruppo di sostenitori si ritrovò sotto l'ospedale dove era ricoverato. Intonarono una canzone in sloveno e fuggirono subito, beffando i fascisti che non riuscirono ad arrestarli. Ma, nonostante tutto, quel bruciore continuò a consumare Lojze dall'interno. Il 16 febbraio morì dopo quasi due mesi di sofferenza. Noi vogliamo ricordare la sua storia, oggi, con questo breve post. La sua musica, invece, viene ricordata ogni giorno da un centro culturale della città di Gorizia che porta il suo nome.
Cannibali e Re
Per approfondire consigliamo "Metamorfosi etniche di Piero Purini. Lo trovate qui:
https://bit.ly/3upcrc8

QUANDO NOI “ITALIANI BRAVA GENTE” STERMINAMMO CIVILI INNOCENTI PER IMPORRE IL FASCISMO IN JUGOSLAVIAdi Mattia Madonia“No...
02/04/2021

QUANDO NOI “ITALIANI BRAVA GENTE” STERMINAMMO CIVILI INNOCENTI PER IMPORRE IL FASCISMO IN JUGOSLAVIA
di Mattia Madonia

“Noi abbiamo l’ordine di uccidere tutti e di incendiare tutto quel che incontriamo sul nostro cammino”; “Abbiamo distrutto tutto da cima a fondo senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo intere famiglie ogni sera, picchiandoli a morte o sparando contro di loro. Se cercano soltanto di muoversi tiriamo senza pietà e chi muore muore”.
Queste non sono testimonianze storiche al tempo dei barbari, echi di un tempo lontanissimo, ma le lettere dei nostri soldati in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, quando il mito “italiani brava gente” cominciava a prendere piede.
Nel 2020 sembra essere giunta l’ora di sfatarlo.
Sul finire degli anni Trenta, Mussolini decise di intraprendere l’ennesima, pomposa campagna espansionistica.
I motivi furono molteplici: bisognava dare un segnale tanto agli alleati quanto ai nemici, cercando da un lato di farsi spazio in mezzo allo strapotere tedesco, dall’altro di rosicchiare territori ai francesi e agli inglesi, impedendo una loro avanzata.
Inoltre, Mussolini intendeva riscattarsi dopo i fallimenti del colonialismo in Africa, caratterizzati da perdite economiche, sanzioni internazionali, impoverimento militare e orrori commessi in quelle terre.
Lo sguardo cadde sui Balcani, ma prima di arrivare ai territori confinanti con la nostra pen*sola si partì dal basso, in Albania e in Grecia.
Nel 1939 ci fu l’occupazione dell’Albania, inizialmente facilitata da un esercito nemico poco organizzato e con scarse risorse.
I problemi sorsero quando iniziarono gli atti di ribellione della resistenza locale, con i gruppi partigiani che ottennero l’appoggio della popolazione civile nel tentativo di contrastare i soldati italiani.
Il nostro esercito si affidò dunque alla repressione e alle violenze contro i civili. Gli ordini dall’alto erano chiari: gli atti dimostrativi consistevano nella distruzione di interi villaggi, imprigionando o uccidendo tutti gli abitanti.
Il risultato campeggia ancora adesso nel Museo della resistenza di Tirana: 28mila morti, 43mila deportati e internati nei campi di concentramento, 61mila abitazioni incendiate, 850 villaggi distrutti, 100mila bestie razziate. Quello fu solo l’inizio di quella che venne definita una guerra parallela e che dovrebbe servirci come memoria dell’orrore che non abbiamo mai espiato.
Nel 1940 fu la volta della Grecia, con le truppe italiane che avanzarono nel territorio ellenico partendo dall’Albania.
Gli italiani faticarono anche in quell’occasione ad avere la meglio contro la resistenza del posto; vi riuscirono soltanto nel 1941 grazie all’aiuto dei tedeschi e ai soliti metodi brutali: gli eserciti occupanti razziarono i villaggi e portarono i civili alla fame, poi cominciarono le fucilazioni e le deportazioni nei campi di concentramento.
Vi furono numerosi stupri di massa e le donne vennero reclutate per soddisfare i soldati italiani nei bordelli. Nikolaos Bavaris, maggiore di polizia in Tessaglia, scrisse alla Croce Rossa e alle autorità italiane: “Vi vantate di essere il Paese più civile d’Europa, ma crimini come questi sono commessi solo da barbari”, come risposta fu torturato e internato in un campo di concentramento.
Intanto, i tempi si fecero maturi per l’affondo italiano in Jugoslavia, dove tra il 1941 e il 1943 entrarono in azione 650mila soldati del nostro esercito.
La vasta operazione, messa in atto con le potenze dell’Asse, portò l’Italia a ottenere il controllo della provincia di Lubiana, la Dalmazia, il Kosovo, il Montenegro e diversi territori croati.
In questi luoghi cominciò un processo di italianizzazione che intendeva smantellare il vecchio sistema politico vigente oltre che il tessuto sociale, a partire dalle radici linguistiche – tutte le città cambiarono nome – e dagli usi e costumi delle popolazioni locali, che non accettarono di buon grado questo cambiamento.
Anche qui, infatti, nacquero movimenti di ribellione, con partigiani intenti a scacciare l’invasore italiano. Mussolini se ne accorse nel 1942, quando disse: “Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. È cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del Paese e il prestigio delle forze armate. Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione: lo ha voluto, ne sconti le conseguenze”.
Conseguenze che ben presto arrivarono: morte e distruzione.
Bisogna chiamare le cose con il proprio nome: sostituzione etnica.
Fu quello lo scopo dell’Italia fascista in Jugoslavia, attuando durante l’occupazione un attacco all’identità nazionale dei popoli sottomessi partendo dai soprusi contro i civili. Per farlo utilizzò gruppi locali trasformandoli in truppe collaborazioniste, come gli ustaša croati e i četnici serbi, per compiere eccidi e fomentare guerre civili all’interno dei territori conquistati.
Il regime fascista impartì l’ordine di terrorizzare la popolazione per evitare qualsiasi forma di ribellione.
Bisognava fermare sul nascere la resistenza dei partigiani, come dimostra il proclama emesso il 30 maggio del 1942 da Temistocle Testa, prefetto della provincia di Fiume: “Si informano le popolazioni dei territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie (di partigiani), sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati venti componenti di dette famiglie estratti a sorte”. Cominciò così il periodo dei rastrellamenti, dei villaggi bruciati e delle fucilazioni di massa. Non doveva restare nessuna traccia della cultura jugoslava.
Il regime fece cambiare tutti i cartelli stradali, sostituì i cognomi assegnando quelli italiani, vennero proibiti i giornali in lingua locale e furono sciolte tutte le associazioni culturali e sportive.
Inoltre venne imposto per legge il saluto romano. Non ci si poteva ribellare, pena la fucilazione.
Il commissario del distretto di Logatec, Umberto Rosin, in una lettera informativa scrisse: “Si procede ad arresti, a fucilazioni di massa fatte a casaccio, a incendi dei paesi fatti solo per il gusto di distruggere. La frase ‘Gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi’, che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi”.
Quando i tumulti della popolazione divennero insostenibili, il regime decise di sfruttare i campi di concentramento. Il generale Taddeo Orlando specificò che non dovevano limitarsi ai partigiani e ai soldati nemici, scrisse infatti: “È necessario eliminare tutti i maestri elementari, tutti gli impiegati comunali e pubblici, tutti i medici, i farmacisti, gli avvocati, i giornalisti, i parroci e gli operai”.
E il generale Mario Roatta scrisse ai suoi colleghi: “Anche il Duce ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e di applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario. Il Duce concorda nel concetto di internare molta gente, anche 30mila persone”. E così avvenne. Finirono nei campi di concentramento uomini, donne, anziani e bambini, a patire il freddo, la fame e le epidemie.
La strategia del regime fascista d’altronde era proprio questa, come riportato nelle parole del generale Gastone Gambara: “Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. L’individuo malato sta tranquillo”.
Quando la guerra finì e l’Italia p***e il controllo dei territori nei Balcani, le conseguenze furono devastanti. La vendetta dei popoli jugoslavi fu feroce e in larga parte criminale, come ricordano le Foibe e i rastrellamenti di Tito. Le singole nazioni chiesero alle organizzazioni internazionali di processare i criminali di guerra italiani, ma le richieste non andarono a buon fine. L’equilibrio geopolitico che si era creato nel secondo dopoguerra prevedeva nuove alleanze e l’Italia ottenne dagli Stati Uniti e dagli Stati vincitori europei la possibilità di processare in patria i propri connazionali. Come per i criminali di guerra del colonialismo in Africa, ciò non avvenne mai. Rispetto al nazismo per il fascismo non ci fu alcuna denuncia collettiva, nessun processo di Norimberga, ma un reset che portò alla nascita della Repubblica e della Costituzione, senza aver mai fatto fino in fondo i conti con gli errori del proprio recente passato: tra amnistie e amnesie di massa, gli italiani scelsero di dimenticare. La Storia, però, non può essere cancellata, perché anche se non viene tramandata da chi avrebbe il dovere di farlo segna le generazioni, e le vittime non dimenticano, restano le impronte delle carneficine, delle barbarie che superano le logiche già di per sé atroci della guerra, spingendosi oltre il confine di quel seme del male che ha caratterizzato l’intero periodo fascista. Ormai è tardi per fare giustizia, tutto ciò che possiamo fare è informarci e ricordare, affinché tutto ciò non si ripeta.
https://thevision.com/cul.../sostituzione-etnica-jugoslavia/

LA STRAGE DI GOLOBAR (Kal-Koritnica) E LA PAX ITALIANA.La strage di Golobar (Kal-Koritnica) designa l'uccisione di una q...
26/03/2021

LA STRAGE DI GOLOBAR (Kal-Koritnica) E LA PAX ITALIANA.
La strage di Golobar (Kal-Koritnica) designa l'uccisione di una quarantina di partigiani slavi ammazzati nell'aprile '43 dagli Alpini del Battaglione Vicenza.
I loro cadaveri, alcuni legati col fil di ferro, vennero trascinati in paese a dimostrazione di cosa sarebbe successo a chi si fosse opposto alla pax italiana.

Questa strage avvenne pochi mesi prima e a circa cinque chilometri da Malga Bala.
All'inizio dell’aprile 1943 il comando della Resistenza jugoslava aveva deciso di riorganizzare le forze partigiane operanti in zona in una nuova brigata, da intitolarsi in memoria di Ivan Gradnick e la cui costituzione era stata sancita formalmente il 10 aprile e che doveva costituirsi e raggrupparsi il 26 dello stesso mese presso l'Alpe Golobar, situata poco a est di Plezzo.
In tale occasione, il Regio Esercito Italiano [secondo fonti italiane [1],[2] elementi del Battaglione Alpini di Vicenza Bis -costituito il 1º aprile 1942 per operare nell'Alta Valle dell'Isonzo, all'interno del 9º Reggimento Alpini- al comando del Maggiore Attilio Cilento e dettagliati nelle fonti jugoslave [3],[4] come 150 militari delle CCpp. 408, 409, 647, 649 e 655], probabilmente a conoscenza della cosa per mezzo di qualche delazione (il luogo dell'incontro fu spostato solo il giorno prima rispetto alla designazione iniziale di Malga Predolina), sfruttò l'occasione per circondare i convenuti, giovandosi anche dell'inesperienza militare degli stessi e di un contesto territoriale che ben si prestava all'imboscata, dato che la malga si trovava in un vallone circondato da rilievi e che le due sole sentinelle, posizionate solo in prossimità dell'accampamento confidando nel fatto che l'Esercito Italiano non avrebbe operato il lunedì di Pasqua, avrebbero potuto accorgersi di eventuali attacchi nemici solo in maniera molto limitata e tardivamente, come in effetti avvenne.
Le fonti jugoslave indicano come invece i soldati italiani, visti dai partigiani durante il loro avvicinamento ma non riconosciuti come nemici, poterono circondare i 130 partigiani convenuti e aprire il fuoco tra le 10 e le 11 da quota superiore, utilizzando per l'imboscata anche mitragliatrici e mortai, contro bersagli descritti come intenti a recuperare le forze se non proprio a dormire nei pressi della malga (o, per quanto riguarda la 2 e la 5 compagnia, all'interno della malga stessa [5] ) dopo le fatiche delle marce di avvicinamento (secondo fonti italiane sarebbero stati invece impegnati in una sorta di festa popolare, con canti, balli e suoni).
Sempre secondo le fonti jugoslave, in assenza di piani difensivi e di preparazione militare (alcuni di loro si erano arruolati solo il giorno prima) al punto spesso di non cercare riparo ai colpi, di cercare di contrattaccare le mitragliatrici italiane cantando e urlando slogan e senza che coloro riuscivano a esfiltrarsi potessero aiutare gli altri ancora circondati, i partigiani accusarono più di metà delle vittime totali nel giro di pochi minuti: la battaglia era sostanzialmente terminata attorno alle 12, lasciando spazio a spari isolati sino a sera, quando le CCpp. 409, 647 e parte della 655 rientrarono a Plezzo lasciando le CCpp. 408 e 649 a presidiare il campo.
Il ca****re di Vera Palcic (immagine tratta da Muceniska Pot K Svobodi , pg. 48)
Tale rientro senza prigionieri, unitamente all'assenza di indicazione degli stessi nei pur dettagliati documenti italiani successivi porterà le fonti jugoslave a ipotizzare che feriti e prigionieri siano stati giustiziati sul posto dagli italiani.
A seconda delle fonti il numero delle vittime della battaglia oscilla tra i 39 e i 43 partigiani morti e numerosi feriti tra le file dei partigiani e un ufficiale (il tenente Enrico Bonfiglioni che secondo fonti jugoslave sarebbe caduto insieme ad altri due militari vittima di una imboscata durante il rastrellamento italiano condotto verso la cima dell'Vrsic la mattina del giorno successivo [6]) e tre alpini morti e un ufficiale e sei soldati feriti tra le file italiane.
Il bilancio documentato dell'azione è poi completato da un bottino in armi ed esplosivi, ma, come detto, non da prigionieri.
I cadaveri di almeno 29 dei caduti jugoslavi (gli altri, probabilmente morti durante i rastrellamenti e la fuga successivi alla battaglia, non furono ritrovati immediatamente) furono utilizzati a scopo propagandistico dal Regio Esercito Italiano per ammonire la popolazione locale: legati come tronchi e trascinati a valle sino al villaggio di Cal Coritenza, furono poi ammassati nei cassoni di alcuni camion e portati a Bovec tra canti e suoni di fisarmonica per essere esposti in piazza prima che ne fosse concessa la sepoltura.
Gli storici jugoslavi ricorderanno la partecipazione allo scontro di Ivan Likar - Sočan[7] (noto al tempo come sabotatore delle linee di comunicazione locali[8] e successivamente eroe nazionale sloveno) e, tra i morti, il commissario politico Močnik Cveto-Florjan e Vera Palcic, che si uccise insieme alla sorella Francka per non cadere in mano agli italiani.
L'avvenimento, descritto da storici italiani quali A. Russo e A. Buvoli [9] utilizzando teRmini come massacro, carneficina, scempio e strage, è stato considerato da fonti italiane uno dei motivi della successiva strage di Malga Bala[10] ed è tutt'oggi oggetto di una commemorazione annuale.
Note
1^ Antonio Russo, Planina Bala, Aviani & Aviani Editori.
2^ Antonio Russo, Alle porte dell'inferno.
3^ (SL) Stanko Petelin, Gradnikova Brigada, Soča 1966 , pp. 30-42.
4^ (SL) J.Peterska e R. Ursic, Cas Clovecnosti (PDF).
Scaricabile quihttps://slov.si/doc/cas_clovecnosti.pdf
5^ (SL) J.Petrska e R. Ursic, Cas Clovecnosti (PDF), pp. 260-261.
Scaricabile quihttps://slov.si/doc/cas_clovecnosti.pdf
6^ (SL) Stanko Petelin, Gradnikova Brigada, Soča 1966, p. 37.
7^ (SL) Stanko Petelin, Gradnikova Brigada, Soča 1966, p. 795.
8^ Gorizia - Attività dei banditi e dei ribelli, in Notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana, 12/09/1944.
«In questi ultimi tempi, una banda comunista comandata da un certo Giovanni likar, avrebbe commessi diversi atti di sabotaggio ai ponti ed al cavo telefonico lungo la strada statale col Friuli, nelle vicinanze della centrale elettrica di Bretto. La banda avrebbe pure effettuato una ricognizione nella zona di Fusine Valromana ove, in seguito conflitto con la polizia tedesca il capo lì car rimaneva gravemente ferito. In questa azione venivano uccisi 4 banditi e fatto prigioniero un certo Riccardo Mauri.».
9^ Alberto Buvoli, Foibe e deportazioni: ristabilire la verità storica, in Quaderni della Resistenza, n. 10, p. 70.
19^ Alessandro Della Nebbia, L'eccidio di Malga Bala, in Notiziario Storico dell'Arma dei Carabinieri, n. 2, 2019, p. 10.
«La strage di Malga Bala è spesso anche posta in relazione con l’eccidio che era stato perpetrato dai nazisti per rappresaglia in una frazione di Bretto di Sopra nell’ottobre 1943, uccidendo circa 15 persone, lasciandone esposti i corpi come monito alla popolazione e dando alle fiamme tutte le abitazioni. Altri richiamano infine anche lo scontro tra partigiani e reparti dell’Esercito italiano avvenuto sul vicino monte Golobar nell’aprile ancora precedente, in cui rimasero uccisi circa 40 combattenti sloveni, le cui salme sarebbero state trascinate a valle legate con fil di ferro.».

Gli italiani dimenticati che scelsero di combattere per liberare la Jugoslavia - La liberazione di Belgrado nell’ottobre...
22/03/2021

Gli italiani dimenticati che scelsero di combattere per liberare la Jugoslavia - La liberazione di Belgrado nell’ottobre 1944.
Dopo l’8 settembre ’43 molti soldati italiani combatterono con i partigiani jugoslavi.

L'ALLIEVO PREDILETTO DI MUSSOLINI: ANTE PAVELICCon lo smembramento e le annessioni di pezzi della Jugoslavia e l'insedia...
21/03/2021

L'ALLIEVO PREDILETTO DI MUSSOLINI: ANTE PAVELIC
Con lo smembramento e le annessioni di pezzi della Jugoslavia e l'insediamento al potere di Ante Pavelic in Croazia, i fascisti e i nazisti scatenarono una guerra civile. Pavelic era stato fin dal 1929 allevato e protetto in Italia, proprio in funzione dello smembramento del Regno di Jugoslavia, che era di ostacolo alle mire fasciste nei Balcani e già 9 giorni prima dell'aggressione alla Jugoslavia Mussolini raccomandava a Hi**er di tenere "di conto delle tendenze separatiste rappresentate dal dottor Pavelic che si trova a breve distanza da Roma".
Pavelic e i suoi ustacia furono insomma funzionali ai progetti destabilizzanti nei Balcani, secondo le direttrici di una politica delineata già dal periodo risorgimentale.
L'aggressione era quindi ben vista da Mussolini, e non subita in seguito alla decisione dell'alleato nazista, come in molti testi divulgativi erroneamente si sostiene, quando non si nasconde addirittura la partecipazione italiana all'aggressione.

L'AGGRESSIONE NAZIFASCISTA ALLA JUGOSLAVIA (PER NON DIMENTICARE)La violenta repressione fascista contro sloveni e croati...
11/03/2021

L'AGGRESSIONE NAZIFASCISTA ALLA JUGOSLAVIA (PER NON DIMENTICARE)
La violenta repressione fascista contro sloveni e croati degli anni Venti e Trenta divenne una vera e propria p***ecuzione razziale di massa con la seconda guerra mondiale e l'aggressione nazifascista alla Jugoslavia.
Il 6 aprile 1941, senza nessuna dichiarazione di guerra, inizia l'attacco tedesco e italiano – II armata del generale Ambrosio – che insieme con ungheresi e bulgari invadono la Jugoslavia.
All'Italia toccarono diversi territori, con i quali poté coronare il suo vecchio programma imperialista di dominio sull'Adriatico. Alcuni di questi territori vennero annessi in contrasto con il diritto di guerra che non ammette l'annessione di territori occupati nel corso di azioni belliche prima della stipula del trattato di pace, e diventarono province italiane: Lubiana, Spalato, Cattaro (queste ultime con la "vecchia" provincia di Zara formano il Governatorato di Dalmazia), altri territori andarono a ingrossare la provincia di Fiume.
Il Montenegro divenne un protettorato italiano in Kossovo con parti della Macedonia all'Albania che era già sotto il dominio italiano.
La Croazia divenne un regno, formalmente indipendente (ma il re che doveva essere l'italiano Ajmone di Savoia con il nome di Tomislavo II non fu mai nominato) con a capo l'ustacia (fascista) Ante Pavelic, di fatto uno stato fantoccio, asservito prima agli italiani e poi ai tedeschi.
L'aggressione nazifascista, lo smembramento della Jugoslavia, la sua occupazione da parte degli eserciti dell'Asse e l'imposizione di governi fascisti come quello degli ustacia, provocarono una impressionante sequenza di terrore, violenze e crimini con immani stragi di popolazione inerme di cui furono vittime i popoli jugoslavi con la MORTE DI 1 MILIONE E MEZZO di persone.
E l'Italia ha le stesse responsabilità dei nazisti tedeschi in questi crimini orrendi contro l'umanità.

IL RAZZISMO DELLA DITTATURA FASCISTA CONTRO I POPOLI SLAVI.Nei post precedenti abbiamo insistito su alcune idee dei gera...
04/03/2021

IL RAZZISMO DELLA DITTATURA FASCISTA CONTRO I POPOLI SLAVI.
Nei post precedenti abbiamo insistito su alcune idee dei gerarchi fascisti in merito alla "Bonifica nazionale" e sulle loro pratiche conseguenze sulle popolazioni della Venezia Giulia per mettere in risalto che la politica di deportazione di massa di slovenim croati, serbi, montenegrini jugoslavi nei campi di concentramento italiani non fu una scelta dettata dalle necessità della guerra, ma aveva le sue radici nel profondo razzismo antislavo del fascismo di frontiera, nei programmi di dominio sull'Adriatico, e nella progettazione della bonifica nazionale contro sloveni e croati della Venezia Giulia sviluppata per tutto il ventennio della dittatura.
Quindi la repressione fascista contro sloveni e croati degli anni Venti e Trenta divenne una vera e propria p***ecuzione razziale di massa con la Seconda guerra mondiale e l'aggressione nazifascista alla Jugoslavia.
(Nel prossimo post l'aggressione fascista e nazista alla Jugoslavia)

CRIMINI DI GUERRA ITALIANI IN JUGOSLAVIA Nei territori occupati le truppe italiane nelle zone in cui era attivo il movim...
23/02/2021

CRIMINI DI GUERRA ITALIANI IN JUGOSLAVIA
Nei territori occupati le truppe italiane nelle zone in cui era attivo il movimento partigiano adottarono pratiche repressive estreme.
Gli ordini impartiti, fra cui la circolare 3C del generale Roatta del marzo 1942, configuravano una vera e propria «guerra ai civili».
Le azioni antiguerriglia prevedevano arresti, prese di ostaggi, fucilazione degli ostaggi medesimi, distruzione dei paesi, uccisione degli uomini e deportazione di donne e bambini. In particolare, nelle zone in cui l’esercito italiano non riusciva a ve**re a capo della ribellione, provvide a svuotare il territorio con la deportazione in massa della popolazione.
I deportati furono alcune decine di migliaia, reclusi in un gran numero di campi collocati sulle isole dalmate e nella pen*sola italiana. I più famigerati furono quelli di Gonars in Friuli e dell’isola di Arbe. Qui la mortalità fu assai elevata per le pessime condizioni igieniche ed abitative e la sistematica sottonutrizione.
A partire dal 1942 le azioni partigiane cominciarono ad interessare anche le province giuliane di Fiume, Trieste e Gorizia. Anche qui pertanto le autorità italiane adottarono le medesime pratiche repressive. Va segnalata ad esempio la strage compiuta nel luglio 1942 nel paese di Podhum, nei pressi di Fiume, in cui vennero uccisa una novantina di persone, cioè tutti i maschi adulti del villaggio.
Sempre nel 1942 venne costituito l’Ispettorato speciale di pubblica sicurezza per la Venezia Giulia, specificatamente dedicato alla lotta antipartigiana mediante l’infiltrazione e la tortura.

6 IL FASCISMO DI CONFINE Fascismo di confine (ideologia) «Fascismo di confine» è la definizione che il nuovo movimento (...
21/02/2021

6 IL FASCISMO DI CONFINE
Fascismo di confine (ideologia) «Fascismo di confine» è la definizione che il nuovo movimento (trasformatosi poi in partito) scelse fin dal 1919 per sottolineare la sua specifica identità in relazione alla realtà locale (il Friuli e soprattutto la Venezia Giulia) e nazionale. Si delineò molto velocemente l’immagine e il mito del confine come «barriera» invalicabile e, nello stesso tempo, come bastione da cui proiettarsi verso l’Europa Sud – Orientale, segnatamente verso il Regno dei serbi, croati e sloveni (SHS), appena sorto. A Trieste fu precoce, rispetto ad altre zone d’Italia, la nascita del fascio (3 aprile del 1919) e fu presto organizzata la sua violenta forza d’urto. Alle sue origini vi era un insieme disordinato di gruppi diversi e di idee non ben delineate: dalle urla rabbiose contro la «vittoria mutilata», al grido di vendetta per i troppi morti e le troppe sofferenze provocate dalla guerra, alle promesse di giustizia sociale e di rinnovamento politico contro le istituzioni rappresentative e associative della fragile democrazia liberale. Un forte nesso di aggregazione venne costituito da alcuni precisi elementi: il nemico esterno, gli «slavi» del Regno SHS; il nemico interno e cioè gli «slavi» presenti nell’area, contro cui la tradizione nazionalista si era ben allenata nel passato; l’evidente incapacità delle nuove autorità italiane (salvo rare e deboli eccezioni) di capire in quale mondo fossero state delegate a governare. Il movimento di ribellione sociale guidato dai sindacati e dal partito socialista si presentava, a sua volta, come il primo contendente dello scontro diretto e violento che si aprì nelle piazze e nei quartieri operai.

Fascismo di confine (squadrismo) A Trieste «le squadre volontarie di difesa cittadina» sorsero nel maggio del 1920, per raggiungere ben presto una forte potenzialità d’azione, sotto la guida di Francesco Giunta, destinato ad una importante carriera durante il ventennio fascista, ma giunto a Trieste nelle vesti di avvocato e soprattutto di ex ufficiale dell’esercito, all’interno di quegli uffici ITO (Uffici Informazioni Truppe Operanti) che ebbero un ruolo essenziale nell’orientare l’opinione delle autorità italiane sulla realtà sociale e politica dei territori appena occupati dopo il crollo dell’Impero austro ungarico. Nel marasma del primo dopoguerra, Francesco Giunta, emulo di D’Annunzio, organizzò le squadre per combattere quella che veniva definita «l’Antinazione» (sloveni, croati e socialisti). Si trattava di circa 156 soggetti molto attivi nella sola Trieste, tenendo conto che nel 1921 la Federazione fascista di Trieste contava 14.756 iscritti. Erano uomini – ragazzi, spesso sono legati tra loro da vincoli di parentela (cugini, fratelli, padri e figli), che proiettavano la loro aggressività dalle famiglie verso l’esterno, ma che altrettanto spesso provenivano dall’esperienza fiumana e dalla disperata fuga dalle loro terre d’origine (dal Centro e dal Sud Italia) in cerca di fortuna e di lavoro. In poco tempo l’idea della «squadra» si consolidò attraverso le sanguinose spedizioni verso le campagne abitate prevalentemente da sloveni e da croati o in altre zone della regione, mentre le autorità politiche e militari rifuggivano da azioni decise di contrasto. Il legame interno era poi esibito dalla divisa comune (la camicia nera), dal cameratismo audace che evocava il ricordo della guerra e da atteggiamenti e comportamenti che rifiutavano l’immagine dell’uomo disorientato e ferito, imponendo quella del «maschio» sano e invincibile. Il collante principale fu, tuttavia, la violenza, fonte di esaltazione e di complice ricatto. Il 13 luglio 1920, l’incendio del Narodni Dom, il più moderno e importante centro culturale delle organizzazioni slave della città, segnò il trionfo dello squadrismo fascista e del capo carismatico Francesco Giunta, che in quell’azione ripose l’essenza del fascismo di confine, mentre le autorità civili e militari rimanevano a guardare, senza opporre alcuna forma di contrasto. Nel disordine violento delle squadre, infatti, intravvedevano, la possibilità di ristabilire l’ordine che esse non erano capaci di imporre con i mezzi della tradizione liberale, mentre, al loro interno, non mancavano forme di complicità e di condivisione rispetto al nuovo soggetto politico. Nel disordine violento delle squadre, infatti, intravvedevano, la possibilità di ristabilire l’ordine che esse non erano capaci di imporre con i mezzi della tradizione liberale, mentre, al loro interno, non mancavano forme di complicità e di condivisione rispetto al nuovo soggetto politico.
Fascismo di confine (bonifica etnica) Una delle fonti principali d’ispirazione del fascismo di confine fu senz’altro rappresentata dal nazionalismo: il tema dell’antislavismo si annidava quindi nel cuore del nuovo movimento e poi del PNF, provocando una serie di provvedimenti legislativi tendenti ad escludere una parte importante della popolazione slovena e croata della regione dalla partecipazione alla vita pubblica. L’italianizzazione dei cognomi, la riscrittura della toponomastica, la subitanea p***ecuzione del clero «slavo», la chiusura delle scuole slovene e croate nonché di tutte le associazioni e partiti che a quel mondo si riferivano, rappresentavano tuttavia solo una parte (certo la più vistosa) di scelte di snazionalizzazione, che crearono divisioni profonde all’interno di una comunità che, nonostante gli attacchi del nazionalismo del primo Novecento, aveva trovato forme di mediazione significative: matrimoni misti, affari in comune, mescolanze culturali non erano affatto fenomeni rari.

Il fascismo di confine, anche attraverso provvedimenti di polizia molto pesanti (la vigilanza puntigliosa, le denunce, il confino, il deferimento presso il Tribunale speciale per la difesa dello Stato), tentò di cancellare l’identità di coloro che venivano considerati, secondo una definizione ricorrente, «gli infedeli»: il regime fascista, non diversamente di quanto accade per il resto della popolazione italiana, chiedeva loro supina obbedienza. Nel caso degli sloveni e dei croati presenti nell’area era tuttavia incombente la minaccia di essere accusati di terrorismo, sostenuto dal nemico slavo al confine. La propaganda e il disprezzo verso la popolazione slovena e croata, considerata di civiltà inferiore, si univa spesso a forme di allettamento soprattutto sul piano dell’assistenza verso i più disagiati. Il totalitarismo fascista, puntando alla ridefinizione del corpo nazionale sotto le sue esclusive insegne, seguì, infatti, molte strade: l’adescamento (e la «conversione») «dei diversi» fu una di queste. Che l’operazione di «bonifica etnica» fosse riuscita non si può dire, poiché la popolazione, nelle chiese e nelle case, continuò in buona misura a preservare la propria identità, opponendo una resistenza tenace che spesso si trasformava in aperta opposizione antifascista. «Brutale e fiacca» è stata definita quella scelta di snazionalizzazione tanto esaltata dalla propaganda: un censimento riservato del 1939 per tutta la Venezia Giulia, impostato secondo i criteri della lingua d’uso, mostrò alle autorità competenti la solidità della presenza «allogena», ben poco scalfita, rispetto al 1921, nella sua consistenza numerica (circa 395.000 alloglotti presenti su una popolazione di un 1.000.000 unità), nonostante anche una forte emigrazione (molte decina di miglia di unità, stime più precise sono impossibili). Tuttavia, il gioco mortale innescato dal disprezzo e dall’odio che si colora di razzismo non avrà termine. A lungo, anche dopo la caduta del fascismo, sarà destinato a lacerare le terre di confine.

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